giovedì 24 giugno 2010

Appunti generali su tutto il programma

KANT
Immanuel Kant nasce a Konigsberg nel 1724 e vi morì nel 1804 dopo una vita priva di avvenimenti significativi, interamente concentrata su di uno sforzo di pensiero e basata su rigide abitudini.
Non fu però mai estraneo agli avvenimenti politici del suo tempo come è dimostrato dalla delineazione del suo ideale politico nel suo scritto Per la pace perpetua dove inneggiava ad una costituzione repubblicana.
Al'inizio della sua attività letteraria si interessò di scienze naturali e di filosofia iniziando il suo orientamento verso l'empirismo ed il criticismo.
Le sue opere principali sono le tre critiche, e la sua filosofia è detto criticismo perché si oppone al precedente atteggiamento mentale del dogmatismo.
Criticare significa per Kant giudicare, valutare ciò di cui si parla, trovandone i fondamenti, le possibilità, la validità e i limiti. Pertanto il suo criticismo si configura come filosofia del limite
Non è come lo scetticismo di Hume, poiché Kant ritiene che tracciare i limiti dell'esperienza significa al tempo stesso garantirne, entro il limite,la validità.. Tuttavia Kant afferma che è Hume ad avere rotto il suo “sonno dogmatico”.
Il Kantismo si inserisce a pieno nel contesto del periodo, scosso dalla rivoluzione scientifica e dalla crisi della metafisica tradizionale, poiché si interroga sui fondamenti del sapere, della morale e dell'esperienza estetica e sentimentale.
Kant quindi si distacca dall’empirismo spingendo più a fondo l'analisi critica, e supera anche l’Illuminismo per radicalità di intenti, perché vuole mettere a giudizio la ragione stessa.
Kant rimane ad ogni modo figlio dell'Illuminismo in quanto ritiene che i confini della ragione possano essere tracciati solo dalla ragione stessa ed in quanto rifiuta di cercare di tracciare tali limiti con l'ausilio di qualsiasi esperienza extra-razionale.
La Dissertazione del 1770
Nella Dissertazione del 70 Kant anticipa la sua posizione riguardo a spazio e tempo che ritiene costituenti della base della forma percepibile.
Kant si allontana sia dai razionalisti, per i quali sono il modo di disporsi delle cose davanti all’intelletto, sia dagli empiristi, per i quali sono realtà ontologiche.
Per lui spazio e tempo sono intuizioni pure della sensibilità, le strutture con le quali essa ordina le sensazioni, e non derivano dall’esperienza, ma sono innati. Per Kant fare esperienza vuol dire spazializzare e temporalizzare.
La critica alla ragion pura (1781)
La critica alla ragion pura è un’analisi della facoltà conoscitiva umana, per trovarne per trovare i limiti entro cui essa è valida, senza spingersi oltre nella metafisica. La conoscenza ha tre facoltà: la sensibilità, l’intelletto e la ragione. La sensibilità riceve le informazioni e, attraverso le forme a priori di spazio e tempo, le comunica all’intelletto; esso fa sì che pensiamo i dati sensibili attraverso le categorie, che sono le sue forme a priori; la ragione infine è la facoltà con cui l’uomo prova a spingersi oltre l’esperienza, per spiegare globalmente la realtà nelle tre idee di anima, mondo e Dio. La CRP si divide in Estetica trascendentale, Analitica trascendentale, e Dialettica trascendentale. Trascendentale significa ciò che permette la conoscenza trascendendo l’esperienza, ma precedendola a priori.
I giudizi sintetici a priori
Per Kant ogni tipo di conoscenza inizia con l’esperienza. Ma la conoscenza per essere universale e valida deve avere dei principi assoluti, che valgono per tutti e non derivano dall’esperienza, cioè i giudizi sintetici a priori. Sintetici, poiché il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto; a priori, poiché essendo universali e necessari non derivano dall’esperienza. Su questi giudizi si basa al scienza, e non su giudizi analitici a priori, che non derivano dall’esperienza ma non aggiungono niente al soggetto, né su giudizi sintetici a posteriori, che aggiungono qualcosa di nuovo al soggetto, ma derivano dall’esperienza. I giudizi sintetici a priori, non derivando dall’esperienza, sono delle forme innate, comuni a tutti, che ordinano i dati sensibili che arrivano dall’esterno. Il fenomeno è la realtà come ci appare tramite le forme a priori della conoscenza, mentre il noumeno è la cosa in sé.
La rivoluzione copernicana di Kant in ambito gnoseologico è scoprire che è il soggetto, con le sue caratteristiche, ad imporre com’è l’oggetto: esso viene ordinato dalle forme a priori dell’uomo. Proprio in virtù della soggettività viene garantita la loro universalità. In questo modo Kant supera lo scetticismo di Hume, e dà un fondamento alla scienza: questo fondamento sono i giudizi sintetici a priori
Estetica trascendentale
Nell’Estetica trascendentale, Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori, lo spazio e il tempo. La sensibilità riceve il materiale e lo organizza in sensazioni tramite le forme a priori di spazio e tempo. Lo spazio è la forma a priori del senso esterno, cioè delle sensazioni esterne e del loro disporsi una accanto all’altra, mentre il tempo è la forma a priori del senso interno, cioè delle sensazioni interne e del loro disporsi una dopo l’altra. Tuttavia, poiché anche attraverso il senso interno ci giungono dati dall’esterno, il tempo è anche forma a priori del senso esterno. Kant giustifica l’apriorità di spazio e tempo dicendo che sono strutture mentali entro cui ordiniamo i fenomeni. Essi sono quindi soggettivi rispetto alle cose, ma sono oggettivi rispetto all’esperienza, l’universalità è garantita dalla soggettività, e qui Kant fa l’esempio delle lenti. Attraverso queste riflessioni, Kant giustifica anche l’apriorità della matematica e della geometria, che si basano su giudizi sintetici a priori, poiché ci danno dei risultati nuovi e i loro teoremi valgono indipendentemente dall’esperienza. Esse sono valide proprio grazie alle forme a priori di spazio e tempo: la geometria è la scienza che dimostra a priori le proprietà dei corpi nello spazio, mentre l’aritmetica dimostra a priori le proprietà delle serie numeriche, basandosi sul tempo e sulla successione.
Analitica trascendentale
Nell’Analitica trascendentale, Kant studia l’intelletto e le sue forme a priori, le categorie. L’intelletto è la facoltà con cui pensiamo ciò che ci viene dato dalla sensibilità , e lo ordiniamo con le categorie, che sono le forme a priori dell’intelletto. Tramite le categorie l’intelletto unifica diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune (concetto), formulando un giudizio. Poiché la logica generale individua 12 tipi di giudizio, ordinati secondo Quantità, Qualità, Relazione e Modalità, Kant redige una tavola di 12 categorie, non senza qualche forzatura per trovare una perfetta simmetria. Le categorie sono applicabili soltanto ai dati d’esperienza
Ora Kant ha però il problema di dare validità alle categorie, trovarne il fondamento. Questo fondamento secondo Kant è la facoltà del pensiero di unificare il molteplice, che Kant chiama “io penso”, ed è una struttura mentale che accomuna tutti e rende possibile il pensiero. Essa è detta “categoria delle categorie” o “condizione della pensabilità”. L’io penso agisce tramite i giudizi, ma siccome essi si basano sulle categorie, niente può venire pensato senza essere categorizzato dall’io penso. L’io penso è comunque un’entità formale, non ha valenza ontologica come la res cogitans di Cartesio.
Successivamente Kant cerca in che modo l’intelletto applica le categorie ai fenomeni, infatti esse sono “pure”, non hanno contatti coi dati sensibili. L’intelletto però agisce su di essi tramite il tempo, che è ciò attraverso cui gli oggetti vengono percepiti, la temporalizzazione. Kant sviluppa quindi il concetto di “schemi trascendentali”, che permettono il collegamento, e grazie ai quali le categorie si calano nel tempo, e si collegano coi dati sensibili. Ad esempio, lo schema della categoria di sostanza è la permanenza nel tempo, mentre lo schema della categoria di causa-effetto è la successione irreversibile nel tempo.
Alla fine Kant elabora i “principi dell’intelletto puro”, che sono le regole attraverso cui avviene l’applicazione delle categorie agli oggetti: gli assiomi dell’intuizione (quantità) affermano che tutti i fenomeni sono quantità; le anticipazioni della percezione (qualità) affermano che ogni fenomeno ha un intensità; le analogie dell’esperienza (relazione) affermano che l’esperienza è costituita da rapporti basati sui principi della permanenza della sostanza e della causalità; i postulati del pensiero empirico in generale (modalità) affermano che è possibile, reale e necessario ciò che è in accordo rispettivamente con le condizioni formali, materiali e universali dell’esperienza. Da tutti questi ragionamenti si configura la teoria dell’io “legislatore della natura”, espressione della rivoluzione copernicana, in quanto l’ordine che noi vediamo nella natura non deriva da essa stessa ma dall’”io penso” e dalle sue forme a priori, che ordinano i fenomeni. In questo modo Kant basa sul soggetto, e non sull’oggetto, la validità del sapere.
Poiché le categorie sono applicabili solo all’esperienza, e nel tempo. sostanza è la permanenza nel tempo, mentre lo schema della categoria di causa-effetto èla conoscenza non può avvenire oltre l’esperienza, oltre i fenomeni. Kant non dubita che la realtà non siano i fenomeni, ma la cosa in sé, il noumeno, però esso non può essere oggetto di esperienza, ma è un concetto limite che serve a limitare le pretese della ragione pura di avventurarsi oltre l’esperienza.
Dialettica trascendentale
La dialettica trascendentale studia il problema se la metafisica possa essere oggetto di scienza. Essa è un’esigenza naturale della mente dell’uomo, precisamente della ragione, che ha sempre avuto la tendenza a valicare i limiti del finito. Infatti la ragione umana tende ad unificare i dati anche oltre l’esperienza, applicando le categorie alle tre idee: l’idea di anima, che unifica i dati del senso interno, l’idea di mondo, che unifica i dati del senso esterno, e l’idea di Dio, che unisce tutto. L’errore della metafisica consiste nel voler trasformare queste tre esigenze in realtà, mentre il corretto uso della ragione è quello di fare di esse dei principi euristici, cioè che indirizzino la ricerca. La psicologia razionale è un errore che nasce applicando la categoria di sostanza all’io penso, trasformandolo in una realtà chiamata anima, ma in realtà l’io penso è puramente formale. La cosmologia razionale nasce applicando la sostanza a tutti i fenomeni, ma non si può avere esperienza di tutti i fenomeni, e perciò quando si fanno discorsi attorno al mondo, si cade in contraddizioni che Kant chiama antinomie (le prime due matematiche, le altre due dinamiche): l’idea di mondo è quindi illegittima. Anche la teologia razionale è un errore, poiché Dio rappresenta l’ideale della ragion pura, cioè il modello personificato di ogni perfezione, che nasce dalla ragione. Noi non abbiamo esperienza di Dio, quindi Kant confuta le prove dell’esistenza di Dio.
La prova ontologica dice che un essere perfettissimo come Dio non può mancare dell’attributo dell’esistenza, ma Kant obietta che non è possibile saltare dalla possibilità alla realtà ontologica, poiché l’esistenza si deduce solo empiricamente. La prova cosmologica dice che se qualcosa esiste deve esistere anche qualcosa di assolutamente necessario, e poiché io esisto, allora esiste; Kant dice che il limite di questa dimostrazione è la pretesa di passare, nei rapporti causa-effetto, dagli enti causati a quelli necessari, dopodiché questo Necessario è di nuovo l’ente perfettissimo della prova ontologica e si ricade in errore. La prova fisico-teleologica parte dall’ordine dalla finalità del mondo per identificarne in Dio il creatore e ordinatore. Per Kant in questo caso si ignora che potrebbe essere la natura stessa ad ordinarsi secondo leggi immanenti. Inoltre per fare scaturire l’ordine da Dio, egli deve essere creatore, e quindi si torna all’essere perfettissimo della prova ontologica.
Critica alla ragion pratica (1788)
Se la ragione pura è la ragione che dirige la conoscenza, la ragione pratica è quella che dirige l’azione. Essa si divide in ragione empirica pratica, che dirige l’azione basandosi sull’esperienza, e ragione pura pratica, che dirige l’azione indipendentemente dall’esperienza. Kant in quest’opera analizza la morale, e per questo critica la ragion pratica empirica, che si attiene all’esperienza: Kant vuole dare autonomia alla morale, perciò essa può essere raggiunta solo attraverso l’uso della ragion pratica pura. Kant infatti è convinto che esista in tutti gli uomini una legge morale a priori universale e valida per sempre. La morale, in quanto autonoma e incondizionata, è universale e garantisce la libertà, poiché vi è libertà solo in corrispondenza di una morale. Poiché l’uomo è sempre in bilico tra seguire l’istinto o la ragione, la morale si configura come un dovere. Per trovare questa legge, Kant divide i principi pratici che dirigono l’azione in massime, che sono regole soggettive che uno si dà, e imperativi, che sono oggettivi e valgono per chiunque. Gli imperativi si suddividono in imperativi ipotetici, che prescrivono un mezzo in vista del fine, e in imperativo categorico, che ordina il dovere incondizionato. La morale deve per forza risiedere nell’imperativo categorico, poiché solo esso è universale e necessario. Esso, poiché esige universalità, ordina di agire in modo che le massime che uno si dà possano sempre valere per tutti in ogni momento. Altre formulazioni sono: agire in modo da trattare se stessi e l’umanità come fine e mai come mezzo; agire in modo che la volontà sia sempre auto legislatrice. Da queste formulazioni emergono l’universalità della morale, la sua autonomia, la sua formalità (infatti indica come agire, e non cosa fare), l’incondizionatezza. Essendo formale garantisce anche la libertà dell’individuo e l’oggettività della legge. Affinché non si cada nella legalità, affinché un’azione sia morale, deve essere sentita dentro, conta il modo in cui lo si fa. Kant ha individuato nella ragion pratica la condotta umana a cui l’uomo deve sottostare per affermare la propria libertà. Importantissima è l’autonomia della legge, infatti la volontà si autoregolamenta. La rivoluzione copernicana in ambito morale consiste nell’aver capito che non sono le regole a fondare l’etica, ma è l’etica a fondare le regole di cosa è bene e cosa è male, e in questo modo l’uomo è legislatore di se stesso, rimanendo libero. Nella Dialettica della ragion pratica, Kant prende in considerazione il sommo bene. La felicità non può essere l’obiettivo della legge, che perderebbe l’incondizionatezza, e la virtù, da sola, non è il sommo bene che consiste nell’unione delle due. Paradossalmente, Kant arriva a dire che in questo mondo felicità e virtù non sono mai congiunte, poiché la ricerca della felicità implica l’allontanarsi dalla virtù. Si ha quindi una antinomia della ragion pratica, e l’unico modo per uscirne è postulare un mondo nell’aldilà in cui si possano realizzare virtù e felicità. Affinché la morale possa esistere bisogna postulare l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. La prima poiché se solo la santità, cioè la completa aderenza alla legge, rende degni del sommo, bene, e poiché essa non è realizzabile nel nostro mondo, deve essercene un altro in cui disponiamo di tempo infinito per raggiungere la santità. La seconda poiché deve esistere un’entità che faccia corrispondere la felicità al merito nel mondo dell’aldilà, cosa che nel nostro mondo non avviene. Accanto a questi due, Kant aggiunge quello della libertà: uno è libero di scegliere se agire in conformità dell’imperativo categorico o meno; è un postulato poiché secondo Kant il libero arbitrio non è scientificamente affermabile nel nostro mondo dominato dal rapporto causa-effetto. L’ammissione di questi postulati però farebbe crollare la morale, che non sarebbe più incondizionata: deve quindi esserci nell’uomo una ragionevole speranza, perché altrimenti verrebbe privato della libertà.
La Critica del Giudizio
La Critica del Giudizio ha il compito di mediare tra la visione meccanicistica del mondo della CRP e quella autonoma e libera della CRPr. In questa opera Kant analizza il sentimento, facendone una terza facoltà autonoma dell’uomo. Esso è inteso come la facoltà con cui l’uomo fa esperienza delle finalità del reale, che la CRP escludeva e che la CRPr postulava. Il sentimento però non ha valore di conoscenza, è solo un’esigenza umana, e permette l’incontro tra il mondo fenomenico e il mondo noumenico. I giudizi determinanti sono quelli della CRP, mentre i giudizi riflettenti sono giudizi sentimentali che si limitano a riflettere su una natura già ordinata dai giudizi determinanti. Nei primi i particolari sono ordinati nelle strutture universali, nei secondi dal particolare bisogna trovare l’universale, cioè la finalità. I giudizi riflettenti esprimono quindi un bisogno tipico dell’uomo, cioè trovare la finalità delle cose. I giudizi riflettenti si dividono in estetici, che vertono sulla bellezza, e teleologici, che vertono sulla finalità. Entrambi sono puri, a priori nella mente, ma i primi avvertono immediatamente una finalità della natura in armonia con lo spirito dell’uomo, mentre i secondi pensano concettualmente allo scopo di qualcosa. Nel primo caso la finalità è soggettiva/formale, nel secondo oggettiva/reale. Il giudizio estetico è quello da cui deriva il giudizio di bello. Per Kant, secondo la qualità il bello è ciò che piace senza alcun interesse, che piace solo per la sua rappresentazione; secondo la quantità, è bello ciò che piace universalmente, condiviso da tutti; secondo la relazione, la bellezza è la forma della finalità di un oggetto, quando non vi sia uno scopo; secondo la modalità, il bello è ciò che piace necessariamente, sebbene non si possa esprimerne il motivo mediante giudizi logici. A questo punto Kant fa una divisione tra il piacevole e il bello: il piacevole è ciò che piace soggettivamente, che dà luogo ai giudizi estetici empirici; il bello invece è qualcosa di universale, dà luogo ai giudizi estetici puri, cioè incondizionati, e deve essere condiviso da tutti. Kant distingue anche tra bellezza libera, appresa senza concetti, come un arabesco, e bellezza aderente, che ricalca un concetto. Soltanto i primi possono essere giudizi estetici puri. Kant ora deve legittimare l’universalità dei giudizi estetici puri e le caratteristiche del bello. Arriva a farlo sulla base della comune struttura della mente umana tra gli uomini. Infatti secondo lui il giudizio nasce da un rapporto tra l’intelletto e l’immagine dell’oggetto, che risponde alle esigenze finalistiche del primo, e generando un senso di armonia. Tale meccanismo è uguale in tutti gli uomini, da qui è spiegato il senso comune del gusto. Si arriva dunque ad una rivoluzione copernicana anche nell’estetica, in quanto il bello non è più una proprietà ontologia dei corpi, ma è frutto di un incontro dell’intelletto umano con esse, cioè qualcosa che esiste solo in rapporto alla mente. Risulta quindi indispensabile la mediazione della mente. Poiché quindi il bello è disinteressato, incondizionato, universale e senza scopo, è simbolo della morale e del bene.

DAL CRITICISMO KANTIANO ALL'IDEALISMO
Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell'enorme importanza del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l'inevitabile conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili.
Il passaggio all'idealismo consiste in una progressiva eliminazione della cosa in sè kantiana ; non a caso, l'idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il progressivo tentativo di identificare l'oggetto con il soggetto, con una sfumatura tipicamente monistica : l'obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio.
Ne consegue che l'oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione originaria), ma lo facciamo in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L'illusione che esista una cosa in sè, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto.

ROMANTICISMO

Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant) 2)l’idealismo, che muove dalla riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica e contenutistica.




FICHTE

Johann Gottlieb Fichte nasce da una famiglia poverissima nel 1762. Ha un grande interesse per Kant, ed elabora una filosofia che dovrebbe essere il completamento del criticismo, ma che di fato si tratta di una filosofia a sé stante. La sua opera principale è la “Dottrina della scienza”.
L’io puro
Fichte vuole conferire unità alle tre facoltà umane individuate da Kant, e quindi elabora il concetto di Io puro, che non è come l’Io penso un’entità formale, e quindi finito, ma è un’entità sostanziale, dalla quale deriva l’intera realtà: è dunque un’attività infinita. Non esiste più una spaccatura tra fenomeno e noumeno, tutto deriva dall’Io: Fichte propone dunque una metafisica del soggetto. L’io puro implica anche un’assoluta liberta, poiché l’Io è sia il soggetto che il soggetto del conoscere. Noi sappiamo che qualcosa esiste quando ne abbiamo coscienza; a sua volta la coscienza è tale quando ha coscienza di sé, quindi l’Io puro, oltre che un’attività infinita, è un’autocoscienza.
I tre principi della Dottrina della scienza
Come, dall’attività infinita dell’Io puro, nasca il finito, Fichte lo esprime tramite tre formule logico-ontologiche:
L’io pone sé stesso (tesi): infatti un’attività infinita è auto creatrice, ed è condizione di sè stesso e quindi della realtà.
L’io pone il non-io (antitesi): per essere un’attività, deve esserci l’oggetto, quindi l’Io pone l’oggetto, il non-io.
L’io oppone, nell’Io, ad un io divisibile un non-io divisibile (sintesi): ponendo il non-io, l’io è quindi divisibile ed è limitato da non-io finiti, anch’essi divisibili. È la situazione concreta del mondo.
Attraverso questi tre momenti, l’io diviene dialetticamente: non è un processo cronologico, ma l’Io, per poter essere Io puro e attività auto creatrice e infinita, deve creare il non-io, e si trova ad essere finito. L’Io puro presenta quindi una struttura dialettica e triadica (in contrapposizione a Eraclito, in cui c’era una dialettica diaica).
L’attività dell’Io e la libertà
La libertà è l’obiettivo di tutta la filosofia di Fichte. L’attività dell’Io è un’attività tesa al raggiungimento della libertà, poiché la “missione dell’io finito” è diventare “Io puro” e quindi libero. Questo sforzo verso la libertà si realizza attraverso il superamento degli ostacoli, dei limiti, per questo l’Io pone il non-io. Se gli ostacoli non fossero posti dal soggetto stesso non ci sarebbe libertà, l’Io pone l’antitesi in funzione della sua crescita, poiché non c’è crescita senza superamento dell’ostacolo. Ogni tesi suscita un’antitesi, che viene superata con la sintesi ed è un nuovo punto di partenza per il superamento di un altro limite. Il raggiungimento dell’infinità non si verificherà mai, perché altrimenti cesserebbe l’attività.
Dottrina morale
Nella dottrina morale di Fichte. Egli spiega che l’Io pone il non-io solo per poter agire, per cui noi esistiamo per agire e il mondo esiste solo come teatro della nostra azione. Fichte dà dunque un primato alla ragion pratica. L’agire assume un aspetto morale, perché l’uomo deve agire, e deve agire per raggiungere la libertà. E non c’è libertà se non c’è un ostacolo da superare. Quindi il non-Io è indispensabile affinchè l’io si realizzi come attività morale.
Secondo Fichte il dovere morale può essere realizzato dall’io finito solo insieme agli altri io finiti, che gli danno la sollecitazione al dovere. Ammessa l’esistenza di altri esser intelligenti, si è obbligati a dare ad essi lo stesso nostro scopo, cioè la libertà. Quindi la missione dell’uomo non è solo rendersi libero, ma anche rendere il più possibile liberi gli altri, In particolare il dotto, il filosofo, colui che ha maggior conoscenza, non deve essere in isolamento, ma deve farsi maestro ed educatore del genere umano, e spingere gli altri uomini alla libertà. La missione del dotto è l’educazione del singolo a rapportarsi con gli altri. Il fine supremo di ogni uomo è il perfezionamento morale di tutto l’uomo.
Politica
Fichte ha una visione contrattualistica e antidispotica dello Stato, in cui è fondamentale la libertà di pensiero. Lo scopo del contratto sociale è l’educazione alla libertà, se lo stato non la permette il popolo ha diritto alla rivoluzione . Nella visione politica di Fichte la proprietà è frutto del lavoro produttivo. Il fine ultimo della vita comunitaria è il raggiungimento della società perfetta, intesa come comunità di esseri liberi e ragionevoli. Lo Stato è solo un mezzo per raggiungerla, cosi come il compito dei genitori è rendere superflui loro stessi. Questo è un ideale limite in ogni caso. All’interno dello Stato, l’Io pone a sé stesso una sfera di libertà, che sono le sue possibili azioni esterne, e dentro di essa deve poter agire liberamente, per potere garantire ciò serve una forza esterna, cioè lo Stato, che si configura dunque come difensore del diritto. I diritti originali della persona sono tre: la libertà, la proprietà e la conservazione. Questa prospettiva si rispecchia nella teoria dello Stato commerciale chiuso, dove Fichte afferma che lo Stato, oltre a garantire i diritti originari, deve rendere impossibile la povertà e garantire a tutti lavoro e benessere, anche se in esso tutti devono essere subordinati alla società. Fichte perviene dunque ad uno statalismo socialistico e autarchico, in fatti lo stato deve essere autosufficiente sul piano economico. Lo stato deve controllare in maniera capillare tutto il sistema produttivo, dividendo le classi sociali in produttori, trasformatori e diffusori della ricchezza, e fissando il numero di lavoratori di ogni classe e programmando ogni cosa. Se le risorse non dovessero essere sufficienti, solo lo Stato può rivolgersi ai paesi esteri per commerciare. Questa chiusura ha come scopo l’evitare guerre fra Stati.
Nei Discorsi alla nazione tedesca, Fichte ritiene che il mondo moderno richieda una nuova educazione del popolo per un radicale cambiamento dell’umanità. Egli ritiene che solo il popolo tedesco sia adatto per questa nuova educazione,a causa del suo carattere fondamentale, cioè la lingua: i tedeschi sono gli unici ad aver mantenuto la loro lingua e non sono mai stati conquistati, sono un popolo puro. Sono quindi gli unici ad avere una patria e a costituire un’unità organica, una nazione. Fichte auspica l’avvento di una nuova generazione di tedeschi educati sui principi del pedagogo Pestalozzi, che possa realizzare l’unità fra tutti gli uomini. Se essi fallissero, l’umanità perirebbe.

SCHELLING

Gli inizi fichtiani del pensiero schellinghiano e i nuovi fermenti (1795-1796)
Il primo pensiero schellinghiano agita ancora problemi collegati ai dibattiti suscitati dalle difficoltà e dalle aporie inerenti alla kantiana "cosa in sé", che, peraltro, egli ritiene sostanzialmente risolti e superati dalla filosofia di Fichte. Si comprende, pertanto, come la prima (e precocissima) produzione del nostro filosofo (fra i diciannove e i ventun anni) costituisca sostanzialmente un tentativo di impossessarsi dell'Idealismo fichtiano e di ripensarne i motivi di fondo. I sedicenti Kantiani, secondo Schelling, sono fuori strada, perché la dottrina di Fichte è davvero (come sostiene il suo autore) la "vera" dottrina kantiana, svolta in maniera coerente e consapevole, e le sue conclusioni segnano una tappa decisiva: bisogna cercare nella sfera del Soggetto ciò che prima si era cercato nella sfera del mondo esterno e dell'oggetto
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La filosofia schellinghiana della Natura (1797-1799)
.1. L'unità di spirito e di natura
Che cos'è, allora, la natura, se non è puro non-io? Schelling ritiene che il problema sia solubile supponendo l'esistenza di una unità fra ideale e reale, fra spirito e natura: "Il sistema della natura—egli scrive—è insieme il sistema del nostro spirito".
Ciò implica che si debba applicare alla natura quello stesso modello di spiegazione che Fichte aveva applicato con successo alla vita dello spirito. Per Schelling, insomma, gli stessi principi che spiegano lo spirito possono e debbono spiegare anche la natura.
Se così è, allora, ciò che spiega la natura è quella stessa Intelligenza che spiega l'Io. Bisogna trasferire alla natura quella "attività pura" scoperta da Fichte come "essenza" dell'Io. Schelling, in questo modo, giunge alla conclusione che la Natura è prodotta da una intelligenza inconscia, che opera all'interno di essa, e che a gradi si sviluppa teleologicamente, ossia a successivi livelli che mostrano una intrinseca e strutturale finalizzazione.
Il grande principio della filosofia della natura schellinghiana è il seguente: "La Natura deve essere lo Spirito visibile, lo Spirito Natura invisibile. Qui, dunque, nell'assoluta unità dello Spirito in noi e della Natura fuori di noi, si deve risolvere il problema come sia possibile una Natura fuori di noi". La Natura altro non è se non "una intelligenza irrigidita in un essere", "sensazioni spente in un non essere", "arte formatrice di idee che trasforma in corpi". 
3.2. La Natura come graduale dispiegamento dell'intelligenza inconscia
Se Spirito e Natura derivano dai medesimi principi, allora nella Natura deve riscontrarsi quella stessa dinamica di una forza che si espande e di un limite che le si contrappone, che troviamo nell'Io fichtiano. Ma l'opposizione del limite non arresta se non momentaneamente la forza espansiva, la quale tosto riprende il suo corso, per poi arrestarsi ad un ulteriore limite, e così di seguito.
Ora, ad ogni fase costituita da tale incontro della forza espansiva e di quella limitante corrisponde la produzione di un grado e di un livello della Natura, che via via si presenta come più ricco e quindi gerarchicamente più elevato. Il primo incontro fra forza positiva espansiva e forza negativa e limitativa dà luogo alla "materia" (che, dunque, è un prodotto dinamico di forze). La ripresa dell'espansione della forza infinita positiva e l'ulteriore incontro con la forza negativa e limitatrice dà luogo a quello che appare come "meccanicismo universale" e come generale "processo dinamico".
E, qui, Schelling, sfruttando abilmente le scoperte della scienza del suo tempo (di cui era stato attento studioso), ha buon gioco nel mostrare il mobile manifestarsi delle forze e della loro polarità e opposizione nel magnetismo, nell'elettricità e nel chimismo.
L'identico schema di ragionamento vale per spiegare il più alto livello della Natura, che è il livello "organico". Schelling richiama, a questo proposito, i principi della "sensibilità", della "irritabilità" e della "riproduzione", in grande auge fra gli scienziati del suo tempo, che egli fa corrispondere, in maniera analogica, rispettivamente al magnetismo, alla elettricità e al chimismo, ad un livello più elevato, ma secondo la stessa dinamica.
In conclusione: la Natura è costituita da una e identica forza (intelligenza inconscia), che si dispiega nel modo sopra precisato, e che via via si manifesta in piani e in gradi sempre più alti, fino a giungere all'uomo, nel quale si accende la coscienza, e l'intelligenza raggiunge la consapevolezza
3.3. L'anima del mondo e la natura dell'uomo
Risultano, così, chiarissime certe affermazioni di Schelling, divenute assai celebri: "Il medesimo principio unisce la natura inorganica e l'organica", le singole cose della natura costituiscono come gli anelli "di una catena di vita, la quale torna su se stessa, e in cui ogni momento è necessario al tutto"; ciò che appare non vivo nella natura è solo "vita che dorme"; la vita è "il respiro dell'universo"; "la materia è spirito irrigidito".
Si comprende, allora, come Schelling abbia potuto rimettere in auge l'antico concetto di "anima del mondo", come "ipotesi per spiegare l'organismo universale". Questa antichissima figura teoretica (divenuta molto famosa da Platone in poi), secondo Schelling non è altro se non l'intelligenza inconscia che produce e regge la Natura e che solo con la nascita dell'uomo si apre alla coscienza.
Infine l'uomo, che, considerato nell'infinitudine del cosmo, appare fisicamente come una piccolissima cosa, risulta, per contro, essere il fine ultimo della Natura, perché in lui si ridesta appunto lo Spirito, che in tutti gli altri gradi della Natura rimane come assopito.
4. Idealismo trascendentale e idealismo estetico (1800)
4.1. Partire dal soggettivo per giungere all'oggettivo
Una volta chiarito che la Natura altro non è se non la storia dell'intelligenza inconscia, che attraverso gradi successivi di oggettivazione, da ultimo (nell'uomo) giunge alla coscienza, Schelling sentì il bisogno di riprendere l'esame della filosofia della coscienza e ripensarne le strutture tenendo presenti le nuove acquisizioni, e cioè di ripensare a fondo la Dottrina della scienza fichtiana. In effetti, dopo aver esaminato come la natura arrivi all'intelligenza, occorreva rivedere come l'intelligenza arrivi alla natura.
E nel far questo, con alle spalle tutto quanto in materia di filosofia dello Spirito era già stato detto da Kant a Fichte, Schelling concepì e scrisse di getto un capolavoro, II sistema dell'idealismo trascendentale, che gli uscì dalla penna pressoché perfetto.
Ecco come il nostro filosofo indica il programma della filosofia trascendentale: "Porre come primo l'obbiettivo e ricavare da esso il subbiettivo, è, come abbiamo già accennato, il compito della filosofia della natura. Ora, se una filosofia trascendentale esiste, non le rimane altro che seguire il cammino opposto: partire dal subbiettivo come dal primo e assoluto, e farne derivare l'obbiettivo. In tal modo la filosofia della natura e quella dello spirito si sono distinte secondo le due possibili direzioni della filosofia; e se ogni filosofia deve riuscire, o a far della natura un'intelligenza, o dell'intelligenza una natura, ne segue che la filosofia trascendentale a cui spetta quest'ultimo ufficio, sia l'altra necessaria scienza fondamentale della filosofia".
4.2. L'"attività reale" e l'"attività ideale" dell'Io: l'Ideal-realismo
Anche nella costruzione dell'Idealismo trascendentale, come nella filosofia della Natura, Schelling pone l'accento sulla polarità di forze, seguendo il principio proprio di Fichte, opportunamente riadattato.
Lo schema del ragionamento seguito da Schelling è il seguente. L'Io è attività originaria autoponentesi all'infinito, una attività produttiva che diviene oggetto a se medesima (e quindi è intuizione intellettuale autocreatrice). Ma la produzione pura infinita che è propria dell'Io, per essere non solo produttrice, ma per divenire anche prodotto "deve porre limiti al proprio produrre" e quindi "opporre a sé qualche cosa". Ma l'attività dell'Io, in quanto è attività infinita, pone il limite e poi anche lo supera, via via ad un livello sempre ulteriore, come Fichte aveva già detto.
Schelling chiama l'attività che produce all'infinito "attività reale" (in quanto produttrice), mentre chiama "attività ideale" quella che prende coscienza scontrandosi con il limite. Le due attività si presuppongono a vicenda e "da questo mutuo presupporsi delle due attività [...] dovrà essere derivato l'intero meccanismo dell'Io".
Ma in questo modo gli orizzonti della Dottrina della scienza di Fichte si dilatano e l'Idealismo soggettivo diventa, propriamente, un Ideal-realismo, come Schelling dice in questo passo: "La filosofia teoretica è [ . . . ] idealismo, la pratica realismo, e solo entrambe formano il sistema compiuto dell'idealismo trascendentale. Come l'idealismo e il realismo si presuppongono a vicenda, così la filosofia teoretica e la pratica; e nell'Io stesso è originariamente uno e legato ciò che noi dobbiamo separare in servigio del sistema, che procediamo a costruire".
Si sarà notato che, in questo modo, Schelling finisce col porre la filosofia trascendentale come un terzo momento oltre la filosofia teoretica e la filosofia pratica, e, precisamente, come la loro sintesi. E in modo molto chiaro fa appello a una attività unitaria che stia a base dei due momenti del sistema.
4.3. L'attività estetica
Questa nuova prospettiva che si delinea, si comprende ancor meglio in base a quest'altro ragionamento, del tutto analogo al precedente, che Schelling fa. Nella filosofia teoretica gli oggetti ci appaiono come "invariabilmente determinati" e le nostre rappresentazioni ci sembrano determinate da essi e il mondo ci sembra essere un qualcosa irrigidito fuori di noi; per contro, nella filosofia pratica le cose ci appaiono come variabili e modificabili dalle nostre rappresentazioni, in quanto ci sembra che i fini che noi ci riproponiamo le possano modificare.
Vi è qui una contraddizione (almeno apparente), dato che nel primo caso si esige un predominio del mondo sensibile sul pensiero, nel secondo caso, invece, si esige un predominio del pensiero (dell'ideale) sul mondo sensibile. Sembrerebbe, insomma, che, per avere la certezza teoretica, noi veniamo a perder quella pratica, e, per avere la certezza pratica, veniamo a perdere quella teoretica.
Ecco allora il grosso problema che si pone: "in qual modo possono ad un tempo le rappresentazioni essere pensate come determinate dagli oggetti, e gli oggetti come determinati dalle rappresentazioni?".
La risposta al problema è la seguente: si tratta, dice Schelling, di qualcosa di più profondo della "armonia prestabilita" di cui parlava Leibniz, in quanto si tratta di una identità insita nel principio stesso: si tratta di una attività che è, ad un tempo, conscia e inconscia, e che, come tale, è presente sia nello Spirito sia nella Natura e che genera tutte le cose. Questa attività conscia-inconscia è l'"attività estetica". Sia i prodotti dello Spirito sia quelli della Natura sono generati da questa stessa attività: "la combinazione dell'uno e dell'altro (del conscio e dell'inconscio), senza coscienza, dà il mondo reale; con la coscienza dà il mondo estetico [e spirituale] . Il mondo oggettivo non è se non la poesia primitiva e ancora inconscia dello spirito; l'organo universale della filosofia—e la chiave di volta del suo intero edificio—è la filosofia dell'arte".
4.4. L'attività dell'arte e i caratteri della creazione artistica
Nella creazione artistica si fondono, infatti, conscio e inconscio, e il prodotto artistico è, sì, finito, ma mantiene una significazione infinita. Nei capolavori dell'arte umana c'è l'identica cifra dei capolavori dell'arte cosmica. L'arte diviene, così, "l'unica ed eterna rivelazione".
E Schelling può anche abbandonarsi ai più audaci sogni circa una futura umanità, che riconduca la scienza alla fonte della poesia e crei una nuova mitologia, non più prodotto di un singolo, ma di una stirpe rigenerata: "Ora se l'arte sola è quella, a cui riesca di rendere obbiettivo con valore universale quanto il filosofo non può rappresentare che subbiettivamente, è da aspettarsi, per tirare ancora questa conclusione, che la filosofia, com'è stata prodotta e nutrita dalla poesia nell'infanzia del sapere, e con essa tutte quelle scienze, che per mezzo suo vengono recate alla perfezione, una volta giunte alla loro pienezza, come altrettanti fiumi ritorneranno a quell'universale oceano della poesia) da cui erano uscite. Quale poi sarà l'intermediario del ritorno della scienza alla poesia, non è difficile dirlo in modo generale, essendo un tal intermediario esistito nella mitologia, prima che questa separazione, la quale sembra adesso inconciliabile, fosse avvenuta. Ma come possa nascere una nuova mitologia, che non sia creazione del poeta singolo, bensì di una nuova stirpe, che quasi rappresenti un solo poeta, è un problema la cui soluzione si deve attendere solo dai futuri destini del mondo e dal corso ulteriore della storia".
È questo, l'"idealismo estetico" che tanta impressione e tanti entusiasmi suscitò fra i contemporanei, ma che, come tutti i sogni, per quanto grande, durò solo per breve tempo.
5. La filosofia dell'identità (1801-1804)
5.1. La Ragione come assoluto
Questa concezione dell'arte, o meglio dell'intuizione estetica, come quella che coglie l'ideale e il reale nella loro unità, e la definizione della filosofia trascendentale come Ideal-realismo implicavano già chiaramente una nuova concezione dell'Assoluto che doveva abbandonare le unilaterali espressioni kantiane e fichtiane quali: "Soggetto", "Io", "Autocoscienza" e simili, per puntare su una nuova formulazione che intendesse l'Assoluto come "identità" originaria di Io e Non-io, Soggetto e Oggetto, Conscio e Inconscio, Spirito e Natura, in breve (come "coincidentia oppositorum" - cfr. Cusano).
L'Assoluto, dunque, è questa Identità originaria di Ideale e Reale e la filosofia è sapere assoluto dell'Assoluto, fondato sulla intuizione di esso, che è condizione di ogni sapere ulteriore.
Questo Assoluto è ormai chiamato "Ragione" e il punto di vista della Ragione è il punto di vista del Sapere assoluto, e la filosofia è una scienza assoluta. Il rovesciamento della posizione di Kant è ormai completo, così come è anticipata in pieno la prospettiva che Hegel farà propria, sia pure con una serie di modifiche, come vedremo. È evidente che qui ci troviamo di fronte a una concezione in cui Fichte e Spinoza sono sintetizzati in una forma di spiritualismo panteistico (o panteismo spiritualistico) radicale. Tutto è Ragione e la Ragione è tutto: "All'infuori della Ragione non vi è nulla, e tutto è in essa"; "La Ragione è semplicemente una, e semplicemente uguale a se stessa".
6.1.2. La giustificazione metafisica della lotta fra il bene e il male
Il dramma umano, che consiste nella lotta fra il bene e il male, fra la libertà e la necessità, non è se non il rispecchiarsi di un originario conflitto di opposte forze che sono alla base della stessa esistenza e della stessa vita di Dio.Il male c'è nel mondo, perché c'è già in Dio.Gli aspetti oscuri, negativi e angosciosi dell'esistenza hanno quindi un'origine nell'Assoluto stesso.
6.2. La "filosofia positiva" (dal 1815 in poi)
L'ultimo Schelling ha distinto una "filosofia negativa" da una "filosofia positiva" e si è dedicato a quest'ultima. Egli intende per "filosofia negativa" quella fino a questo momento professata, ossia la speculazione intorno al "che cosa universale", vale a dire intorno all'essenza delle cose. Per "filosofia positiva" egli intende invece la filosofia che concerne la esistenza effettiva delle cose. La prima concerne la possibilità logica delle cose, la seconda la loro esistenza reale.

Hegel
Hegel (1770-1831) nasce a Stoccarda e muore a Berlino. Le sue opere principali sono la Fenomenologia dello Spirito, L’enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, e Lineamenti di filosofia del diritto.
Capisaldi del sistema
I capisaldi del sistema sono informazioni che Hegel ci fornisce e che ci permettono di capire la sua filosofia, ma ricordiamo che ogni introduzione alla filosofia è già una filosofia, poiché introdurre un pensiero vuol dire mettere in atto il pensiero stesso.
Per Hegel tutta la realtà è Spirito (Logos, Idea, Ragione), che è infinito. Poichè in esso si colloca ogni aspetto del reale (panlogismo), anche i finiti sono parte dello Spirito, quindi il finito è una determinazione dell’infinito. Lo spirito è un soggetto in divenire, come per Fichte, e diviene dialetticamente. Però non è come il divenire di Fichte, che tende alla perfezione senza mai arrivarci: lo Spirito hegeliano diviene in una dialettica triadica in modo da far coincidere l’essere con il dover essere, cioè la ragione con la realtà. Quindi la dialettica Hegeliana prevede una chiusura, ma dovrebbe rimanere aperta poiché la dialettica è attività e chiudendosi cesserebbe di essere tale. Rimanendo aperta però si arriverebbe al “cattivo infinito” di Fichte. Il processo dello Spirito si realizza autoconoscendosi, e si realizza nell’uomo, poiché è attraverso di esso che lo Spirito si auto conosce, prendendo sempre più coscienza di sé.
Nello Spirito di Hegel vi è l’identità tra ragione e realtà, tra essere e dover essere, poiché la ragione è parte della realtà, ma essa stessa è razionale, non caotica. Lo scopo della filosofia è prendere atto della realtà e rinunciare al tentativo di determinarla, e cercare di comprenderla elevando a concetto ciò che nella realtà è concreto.
Idea, Natura e Spirito
Il divenire dello Spirito passa attraverso tre momenti. Quello dell’idea “in sé per sé”, o idea pura, che è l’idea considerata in se stessa, a prescindere dalla sua concreta realizzazione nel mondo. Quello dell’idea “fuori di sé”, o idea nel suo esser altro, che è la Natura, cioè l’estrinsecazione dell’idea nella realtà del mondo. Infine quello dell’Idea “che ritorna in sé”, che è lo Spirito, cioè l’Idea che dopo essersi fatta natura torna presso di sé nell’uomo. A questi tre momenti corrispondono le tre partizioni del sapere filosofico: la logica è la scienza dell’idea in sé per sé; la filosofia della natura è la scienza dell’idea fuori di sé; la filosofia dello spirito è la scienza dell’idea che ritorna in sé.
Dialettica
La legge che regola il divenire dello Spirito è la Dialettica. La dialettica Hegeliana procede per tre momenti: nel momento “astratto o intellettuale” vi è l’affermazione di una tesi che deriva da una determinazione della realtà; nel momento “dialettico o negativo-razionale” si mette in relazione la tesi con altre determinazioni che ne sono la negazione (si nega la tesi); nel momento “speculativo o positivo-razionale” si coglie l’unità delle determinazioni opposte, ci si rende conto cioè che esse sono manifestazione di un’unica realtà che li comprende entrambi, e si arriva dunque ad una sintesi che porta ad una riaffermazione (Aufhebung) della tesi iniziale. L’Aufhebung esprime l’idea di un superamento che toglie l’opposizione tra i concetti e conserva la verità della tesi.
Critiche alle filosofie precedenti
Hegel critica gli illuministi in quanto essi consideravano la ragione come giudice del mondo, ma così facendo la consideravano per forza esterna alla realtà, e quindi il reale non è razionale.
Hegel critica Kant poiché aveva elaborato una filosofia del finito, per cui l’infinito era solo un limite da perseguire. Inoltre l’essere non è mai dover essere a causa della separazione tra fenomeno e noumeno e tra soggetto e oggetto. Hegel rimprovera anche a Kant la pretesa di voler indagare la facoltà del conoscere prima di procedere a conoscere.
Hegel critica il circolo romantico, poiché dava un primato al sentimento, mentre la realtà deve essere razionale; poiché l’intellettuale non deve isolarsi dal mondo ma integrarsi nelle istituzioni socio-politiche del suo tempo. Nonostante ciò condivide con i romantici il tema dell’infinito.
Hegel critica Fichte per due motivi: in primo luogo perché identifica l’oggetto come non-Io, come ostacolo, rischiando di giungere ad un dualismo kantiano; in secondo luogo perché considera l’infinito come semplice meta ideale dell’io finito, e perciò il suo è un falso o cattivo infinito poiché non viene mai raggiunto.
Hegel critica Schelling poiché egli considera l’assoluto in modo dialettico, cioè come un’unità indifferenziata, astratta e statica da cui deriva tutto in modo inesplicabile.
Fenomenologia dello spirito
Hegel nella Fenomenologia dello spirito racconta lo sviluppo dell’autoconoscenza dello spirito durante tutta la storia, ricorrendo a una serie di figure. Attraverso una serie di contrasti e scissioni, e quindi infelicità, la coscienza si riconosce nella ragione, che è realtà , e nella realtà che è ragione. Quando la coscienza non si è ancora auto conosciuta, è infelice poiché scissa. La fenomenologia dello spirito si divide in Coscienza (tesi), Autocoscienza (antitesi) e Ragione (sintesi).
Coscienza
La coscienza si fissa sull’oggetto. Il punto di partenza della coscienza è la conoscenza sensibile, che può sembrare la più ricca e sicura, ma in realtà rende certi solo della cosa in quanto presente ora e qui, del questo. Poiché la certezza sensibile dà certezza del questo, e non della cosa particolare, essa è un universale. La certezza sensibile del questo non dipende dalla cosa, ma dall’io che la considera, che è anch’esso un universale. Dalla certezza sensibile si passa alla percezione: un oggetto con molteplici qualità riesce a essere percepito come un’unità grazie all’io che la stabilisce. Dalla percezione si passa all’intelletto, che riconosce nell’oggetto un fenomeno, contrapposto all’essenza. Il fenomeno è solo nella coscienza, quindi essa ha risolto l’oggetto in sé, diventando autocoscienza.
Autocoscienza
Con l’autocoscienza ci si sposta sul soggetto: l’uomo è autocoscienza solo se postula la presenza di altre autocoscienze che la riconoscano tale, perciò un uomo ha bisogno degli altri. Il riconoscersi delle autocoscienze avviene tramite un conflitto, in cui uno deve essere disposto a rischiare la vita per l’indipendenza. Il conflitto finisce con il subordinarsi di una all’altra nel rapporto servo-signore. Il signore ha rischiato, il servo no. Ma questo rapporto è destinato a invertirsi, poiché dopo il signore diventa dipendente dal servo, mentre il servo sa essere indipendente. L’indipendenza del servo avviene attraverso la paura della morte (in cui si è sentito indipendente dalla realtà), il servizio (in cui l’autocoscienza impara a vincere gli impulsi autodisciplinandosi) e il lavoro (col quale il servo non usufruisce dell’oggetto, ma gli imprime una forma che permane, simbolo della raggiunta indipendenza). Il raggiungimento dell’indipendenza dell’io dagli oggetti trova manifestazione nello stoicismo, che celebra la libertà del saggio dai beni materiali. Però nello stoicismo la libertà è solo interiore, e la realtà esterna non è negata. Chi mette da parte anch’essa è lo scetticismo, che sospende il giudizio. Lo scetticismo dà luogo a una contraddizione, in quanto dichiara che tutto è vano e non-vero, ma pretende di dire qualcosa di vero. Si crea una scissione tra la coscienza che vuole innalzarsi sulle cose e la coscienza che è parte delle cose, che diviene esplicita nella coscienza infelice che esprime la separazione tra uomo e Dio, situazione tipica dell’ebraismo, col suo Dio trascendente lontano dagli uomini: qui si ripresenta in chiave religiosa il rapporto servo-signore. In un secondo momento il Dio si incarna, ed arriviamo al cristianesimo medievale, in cui Dio è considerato realtà: ma essendo vissuto in un irripetibile periodo storico, è pur sempre lontano, e la coscienza rimane infelice, di cui sono manifestazioni le figure della devozione (pensiero religioso che non si è ancora elevato a concetto, a capire l’unità tra finito e infinito), del faro o operare (in cui la coscienza rinuncia al contatto col Dio, applicandosi al lavoro e considerando i suoi frutti come dono di Dio) e della mortificazione di sé (in cui si ha la completa negazione dell’io a favore del Dio). Questo è il punto più basso che può toccare l’io, ma in questo modo esso si rende conto di essere lui stesso Dio, durante il rinascimento.
Ragione
L’autocoscienza dunque riconosce di essere soggetto assoluto, ed assume in sé ogni realtà, divenendo Ragione. Sa che tutto deriva da sé stessa, ma deve giustificare ciò. Prima cerca nel mondo della natura, descrivendolo, ed è quindi ragione osservativa: è il periodo dell’empirismo. Non trovando risultati, perché in realtà non sa di stare cercando se stessa, crede nuovamente di essere distinta dal mondo. Cerca allora di realizzare l’unione tra sé stessa e il mondo, diventando ragione attiva. Ma finchè questo sforzo è individuale è destinato a fallire, come testimoniano le tre figure del piacere e necessità,in cui l’individuo, deluso dalla scienza, va alla ricerca del godimento, ma il destino è inevitabile e lo travolge, così l’individuo si appella alla legge del cuore, in cui cerca di abbattere i responsabili dei mali del mondo, ma entra in conflitto con altri individui che fanno la stessa cosa. Allora l’individuo cerca di utilizzare la virtù, che va oltre le inclinazioni soggettive, per cambiare il corso del mondo, ma è destinato a fallire a causa del contrasto tra la virtù astratta e la realtà concreta. Perciò secondo Hegel se ci si pone dal punto di vista dell’individuo è impossibile raggiungere l’universalità, l’unione tra soggetto e oggetto, finito e infinito.
La filosofia della Natura
La filosofia della natura, studia la Natura in quanto idea fuori di sé, cioè estrinsecata. Secondo Hegel la fisica empirica deve fornire il materiale alla filosofia, che se ne avvale per dimostrare il modo in cui le leggi naturali si legano in un unico organismo. Ma la natura è quindi divina, poiché in ogni caso idea, ma è concreta nella sua esteriorità, perciò è un contraddizione insoluta, secondo Hegel. Il passaggio dall’idea alla natura è un problema dell’hegelismo, che lo presenta come una caduta dell’idea, o come un suo potenziamento. In ogni caso secondo Hegel è assurdo cercare dio dalle manifestazioni della natura. La filosofia della natura si divide in meccanica,che studia l’esteriorità, fisica, che studia l’individualità, e fisica organica.
La filosofia dello Spirito
La filosofia dello spirito studia l’idea che ritorna in sé, attraverso i tre momenti di spirito soggettivo (individuale), spirito oggettivo (sociale) e spirito assoluto (che conosce se stesso). Nella natura i gradi sono uno dopo l’altro, nello spirito sono uno accanto all’altro.
Spirito soggettivo
Lo spirito soggettivo è lo spirito individuale, che emerge dalla natura, e la sua filosofia si divide in antropologia, fenomenologia e psicologia. L’antropologia studia lo spirito come anima, che rappresenta una sorta di dormiveglia dello spirito, e rappresenta tutti i legami tra l’uomo e la natura. La fenomenologia dello spirito (vedi sopra) studia lo spirito in quanto coscienza, autocoscienza e ragione. La psicologia studia l manifestazioni dello spirito: il conoscere teoretico (con cui la coscienza trova sé stessa), l’attività pratica (con cui la coscienza giunge in possesso di sé) e il volere libero (essenza dello spirito).
Spirito oggettivo
La volontà libera trova la sua realizzazione solo nello spirito oggettivo, dove lo spirito si manifesta in istituzioni sociali. I momenti dello spirito oggettivo sono il diritto astratto, la moralità e l’eticità.
Il diritto astratto
Il volere libero si manifesta all’inizio come volere del singolo, in quanto persona giuridica con diritti e doveri, e riguarda l’esistenza esterna della libertà. La persona trova il suo primo compimento in una cosa esterna che diventa sua proprietà, ma deve essere riconosciuta dalle persone, tramite il contratto, che segna la nascita del diritto. L’esistenza del diritto rende possibile l’esistenza del torto, il cui aspetto più grave è il delitto. La colpa richiede perciò una pena, che è il ripristino del diritto violato. La pena è una riaffermazione del diritto, negazione del delitto, in modo dialettico, perciò per Hegel è necessario. Ma affinchè la pena sia efficace deve essere sentita interiormente dalla persona,perciò entra nella sfera della moralità, la volontà soggettiva.
Moralità
La moralità è la sfera della volontà soggettiva, che si manifesta nell’azione. L’azione è morale perchè viene da un proponimento, quindi da un’intenzione. Il fine dell’azione secondo Hegel è il benessere. quando l’intenzione e il benessere si sollevano all’universalità, il fine della volontà diventa il bene. Ma il bene è ancora un’idea astratta, che attende di passare all’esistenza per opera di una volontà soggettiva, che però può anche essere cattiva e incapace di realizzare il bene. Perciò la moralità è separata tra soggettività e bene: si ha la separazione tra essere e dover-essere, che verrà risolta nell’eticità.
Eticità
Nell’eticità il bene si attua completamente, infatti se la moralità è la volontà soggettiva, l’eticità è la volontà collettiva, che si realizza attraverso le tre forme della famiglia, della società civile e dello Stato. L’eticità supera la contraddizione tra essere e dover-essere della morale, ed è la sintesi di morale e diritto astratto.
La famiglia è un’unità spirituale di due individui fondata sull’amore e sulla fiducia. Essa si articola nel matrimonio, nel patrimonio e nell’educazione dei figli. I figli successivamente escono dalla famiglia per dare origine ad altre, che andranno a formare la società civile. L’unione della famiglia (tesi), si rompe nel sistema atomistico delle famiglie (antitesi) che è la società civile. Essa è la sfera economico-sociale e giuridico-amministrativa del vivere insieme, in cui si incontrano e si scontrano gli interessi individuali di tutti contro tutti. La società civile si articola nel sistema dei bisogni, infatti ogni individuo ha dei bisogni, e per soddisfarli, con la produzione della ricchezza, nascono le classi: la classe sostanziale, di agricoltori, quella formale di artigiani, operai e commercianti, e quella universale dei pubblici funzionari. Fanno parte della società civile anche l’amministrazione della giustizia, mentre la polizia e le corporazioni provvedono all’ordine. Lo Stato è la sintesi dell’eticità, poiché riafferma l’unità, facendo una sintesi di famiglia e società civile. Lo Stato infatti è la società civile consapevole di sé, che indirizza i particolarismi verso il bene collettivo. Si differenzia dai liberali, per cui lo stato tutela i particolarismi, e dai democratici, perché la sovranità non è popolare. Lo Stato infatti non si fonda sugli individui, ma sull’idea di Stato stesso. Rifiuta quindi il contrattualismo. Questo non vuol dire che sia dispotico, poiché lo stato deve operare solo attraverso le leggi: è quindi uno stato di diritto, che garantisce la libertà e la proprietà. L’organizzazione dello stato, la costituzione, non si fa a tavolino,ma nasce dalla vita di un popolo. La costituzione più razionale secondo Hegel è comunque la monarchia costituzionale dei suoi tempi, con la divisione dei poteri: quello legislativo all’assemblea della rappresentanza del popolo, diviso in camera alta e camera bassa (Hegel non ha fiducia nella sovranità popolare poiché il popolo non sa ciò che vuole); il potere esecutivo è nelle mani dei ministri, mentre il potere principesco rappresenta il simbolo dell’unità dello Stato: al re spetta l’ultima parola, anche se è più che altro simbolica. Lo Stato Hegeliano risolve in sé i tre tipi di governo: democrazia, aristocrazia e monarchia. Poiché lo Stato non può dipendere da leggi che ne limitino l’azione, non esiste un diritto internazionale secondo Hegel, e l’unico modo di risolvere conflitti è la guerra, che è vista anche come purificatrice.
Filosofia della Storia
A prima vista la storia può sembrare un insieme di fatti contingenti, ma questo è solo dal punto di vista dell’intelletto finito, infatti la storia è razionale dal punto di vista dello Spirito, e il fine della storia è che lo spirito si auto conosca,e realizzi la sua libertà. I mezzi attraverso cui lo spirito giunge alla conoscenza di sé sono gli individui e le loro passioni. Lo spirito si avvale della passione di alcuni individui, gli eroi, per mettere in atto il suo disegno. L’azione di un individuo sarà più efficace tanto più sarà conforme allo spirito. Gli eroi non fanno che seguire le proprie passioni. La libertà si realizza nello Stato,perciò lo Stato è il fine supremo della storia: la storia del mondo è una successione di forme statali, che si dividono in tre momenti: il mondo orientali, in cui uno solo è libero, il mondo greco-romano, in cui alcuni sono liberi, e il mondo germanico, in cui tutti sanno di essere liberi.
Lo spirito assoluto
Lo spirito assoluto è il momento in cui l’idea giunge alla piena coscienza di sé, e del fatto che tutto è Spirito. Questo è il risultato di un processo dialettico attraverso l’arte, la religione e la filosofia, che non si differenziano per il contenuto, ma per la forma. Con l’arte lo spirito acquista consapevolezza di sé mediante intuizioni sensibili, e lo spirito vive in modo immediato la fusione tra natura e spirito che sta nelle opere d’arte. Il primo momento dell’arte è l’arte simbolica orientale, in cui c’è squilibrio tra contenuto e forma: il contenuto è esiguo, mentre la forma è sfarzosa e bizzarra. L’arte classica greco-romana ha raggiunto un equilibrio tra contenuto e forma, ed è il massimo grado raggiungibile. L’arte romantica invece ha di nuovo uno squilibrio,poiché lo spirito ha acquistato coscienza che qualsiasi forma è insufficiente ad esprimerlo: c’è troppo contenuto rispetto alla forma, e da qui la crisi dell’arte. Questa morte dell’arte non è una morte, ma solo un’inadeguatezza. Nella religione l’assoluto si manifesta come rappresentazione. Nella religione è essenziale il rapporto tra Dio e coscienza: la prima forma è l’immediatezza del sentimento, che dà certezza di Dio, ma non la giustifica. Successivamente vi è l’intuizione di Dio che si ha nell’arte, dopodiché vi è la rappresentazione tipica della religione, a metà strada tra l’intuizione e il concetto. La rappresentazione intende le determinazioni di Dio come giustapposte, indipendenti, è le considera singolarmente, per arrivare a riconoscere l’inconcepibilità dell’essenza divina che le unifica: la religione non può pensare a dio dialetticamente e si arena in un mistero della fede. Lo sviluppo della religione va dalla religione naturale, come la stregoneria, poi le religioni panteistiche orientali, poi le religioni dell’individualità spirituale, quella ebraica o grecoromana, e infine la religione assoluta, quella cristiana, in cui Dio è puro spirito. Anch’essa ha dei limiti, e l’unico sbocco della religione è la filosofia, che vede lo Spirito come concetto. Con la filosofia L’idea giunge alla piena conoscenza di sé e diventa Spirito. La filosofia, come la storia, è un susseguirsi di pensieri e momenti che culminano nell’idealismo e nella filosofia di Hegel: la filosofia è quindi la storia della filosofia, in tutte le sue tappe.
Dibattito sulle teorie politiche di Hegel
A causa della sua teoria dello Stato, Hegel era visto all’inizio come portavoce della restaurazione, e dello stato prussiano. Senza arrivare a considerare Hegel progressista, possiamo dire che egli non è reazionario, ma semplicemente conservatore, poiché pregia più lo stato dell’individuo, infatti non è dispotico ma nemmeno ha sovranità popolare. Non è nemmeno teorico della borghesia come dicono alcuni, poiché lo stato liberale somiglia di più alla società civile, lo stato etico è anti-liberale. Non è nemmeno profeta del totalitarismo, anche se vi è un forte statalismo, e nemmeno paladino della libertà.

Sinistra Hegeliana e Feuerbach
Dopo la morte di Hegel, i suoi sostenitori si divisero in Destra Hegeliana, costituita dai vecchi discepoli, e Sinistra hegeliana, costituita dai nuovi discepoli. L’argomento principale di discussione era il rapporto tra religione e filosofia: la religione esprime lo spirito sottoforma di rappresentazione, la seconda sottoforma di concetto. La destra hegeliana riteneva che esse avessero identità di contenuto, e che quindi la filosofia era comunque una conservazione della religione. La sinistra invece insisteva sulla diversità di forma fra religione e filosofia, e della distruzione della religione, superata dalla filosofia. Il più importante esponente della sinistra Hegeliana è Feuerbach (1804-1872), le cui opere principali solo L’essenza del cristianesimo e L’essenza della religione.
Rovesciamento dei rapporti
La filosofia di Feuerbach parte dal fatto che l’idealismo ha rovesciato i rapporti tra soggetto e predicato: infatti secondo l’idealismo, per cui tutto è spirito, il pensiero è il soggetto, mentre la realtà intera è il predicato; invece Feuerbach ritiene che L’essere, la realtà, sia il soggetto, da cui deriva il predicato che è il pensiero. L’equivoco dell’idealismo è di fare del concerto un attributo dell’astratto, invece del contrario. Feuerbach programma quindi un’inversione di tutti i rapporti: l’inizio della filosofia è il reale.
Critica alla religione
Applicando il rovesciamento alla religione, per Feuerbach non è Dio che ha creato l’uomo, ma è l’uomo che ha creato Dio, che è una proiezione delle qualità umane caratteristiche come la ragione, la volontà, ecc. Dio è l’umano proiettato nell’aldilà e adorato. La teologia è quindi antropologia capovolta, perciò la religione è la prima autocoscienza dell’uomo, tant’è che precede sempre la filosofia. Il progresso della religione è trovare in sé ciò che si credeva in Dio, infatti le religioni guardano a quelle precedenti come idolatrie. Vediamo ora come nasce l’idea di Dio: l’uomo a differenza degli animali ha coscienza di sé anche come specie,e se come individuo si sente debole, come specie si sente onnipotente, e quindi Dio è la personificazione delle qualità della specie. Un altro modo è l’opposizione tra volere e potere:, che porta l’individuo a costruire una divinità in cui tutti i desideri vengono realizzati. Un’latra via è l’adorazione dell’uomo verso le forze della natura dalle quali egli dipende come luce, acqua, ecc. In ogni caso la religione secondo Feuerbach è alienazione, cioè uno stato in cui l’uomo si scinde proiettando fuori di sé una potenza alla quale si sottomette. Perciò l’ateismo è un dovere morale secondo Feuerbach, poichè l’uomo deve riprendere in sé ciò che egli aveva proiettato in Dio. Il compito della filosofia non è più risolvere l’uomo in Dio, ma Dio nell’uomo, che è la nuova divinità.
Critica ad Hegel
Secondo Feuerbach, l’hegelismo non è altro che una teologia mascherata, cioè la traduzione speculativa di tutto il filone teologico occidentale. Anche lo Spirito hegeliano è frutto di un’alienazione, poiché l’essere è stato posto al di fuori dell’uomo, ma è dell’uomo. Poiché Hegel, secondo Feuerbach, è il compimento della filosofia moderna, la critica ad Hegel è la fondazione di una nuova filosofia incentrata sull’uomo.
Umanismo e filantropismo
La nuova filosofia, o filosofia dell’avvenire, è un umanismo naturalistico, poiché fa dell’uomo l’oggetto ultimo del suo discorso, e poiché fa della natura la realtà da cui tutto dipende. Feuerbach considera l’uomo non come astratta razionalità, ma come essere che vive, soffre, gioisce e ha dei bisogni da cui è dipendente: è quindi condizionato dal corpo e dalla sensibilità (di carne e di sangue). La sensibilità è legata all’amore, cioè la passione fondamentale che è tutt’uno con la vita, e apre l’uomo al mondo. Tutte queste caratteristiche implicano il fatto che l’uomo ha bisogno delgli altri, anche per filosofare (essenza sociale dell’uomo). Il fatto che l’uomo sia condizionato dall’esterno implica che si condizionato dagli alimenti (l’uomo è ciò che mangia) per cui è importante l’alimentazione. La filosofia di Feuerbach si riduce quindi ad una forma di filantropia, di amore per l’uomo.

Schopenhauer
Arthur Schopenhauer (1788-1861) è autore di una filosofia che richiama quella di Platone per le idee, quella di Kant per la soggettività, l’illuminismo per il materialismo, ma si scaglia contro l’idealismo ed Hegel, poiché li vede come una filosofia falsa. Richiama anche le filosofie orientali. Le sue opere principali sono Il mondo come volontà e rappresentazione, e Parerga e paralipomeni.
Il mondo come volontà e rappresentazione
Schopenhauer parte dalla distinzione kantiana tra fenomeno e noumeno, ma arriva a dire che il fenomeno è solo un’illusione un “velo di Maya”, che nasconde il noumeno che il filosofo ha il compito di scoprire. Il fenomeno come illusione esiste solo dentro la coscienza, per cui Schopenhauer vede il mondo come rappresentazione (che dà il titolo alla sua opera). La rappresentazione è costituita da oggetto e soggetto, entrambi parte della coscienza e indissolubili. Il materialismo è falso poiché proclama che tutto è oggetto, il contrario l’idealismo. La rappresentazione avviene secondo le tre forme a priori della mente: spazio, tempo e causalità. Quest’ultima è anche l’unica categoria, s cui le altre sono riconducibili. A causa del velo di Maya, l’uomo vive come in un sogno, ma in quanto essere razionale si chiede come arrivare al noumeno. Secondo Schopenhauer l’uomo può vedersi dal di fuori, come rappresentazione, ma può anche sentirsi dentro, e per questo può risalire al noumeno. L’esperienza di base che permette all’uomo di squarciare il velo è la “volontà di vivere”, per cui i fenomeni non sono altro che le manifestazioni della volontà, e più profondamente della volontà di vivere. Ma la volontà di vivere è l’essenza di tutto l’universo, non solo dell’uomo, e la Volontà esiste al di là della realtà. Essa è inconscia, cioè è un energia o un impulso, (la coscienza è solo una manifestazione); è unica poiché esiste al di fuori delle categorie che moltiplicano gli enti; per lo stesso motivo è anche eterna, incausata e senza scopo. La volontà non ha uno scopo oltre sé stessa, e lo scopo della volontà di vivere è la vita stessa: gli esseri sono al mondo per vivere. La Volontà si manifesta nel mondo in due fasi: prima si oggettiva nelle forme immutabili delle idee, poi si oggettiva nei corpi, che sono copia delle idee. Il grado più basso di oggettivazione della volontà è quello delle forze della natura, poi piante, animali, e l’uomo, in cui la Volontà diventa consapevole. Ma aumentando coscienza, l’uomo perde sicurezza rispetto agli altri esseri.
Pessimismo
Se l’essere è manifestazione della Volontà, secondo Schopenhauer la vita è dolore, poiché caratterizzata da continui desideri inappagati, che portano uno stato di tensione, e poi dolore. L’appagamento, se c’è, è breve, ed è soltanto un’interruzione del dolore, che scarica la tensione. La cosa non vale viceversa. Non appena viene meno il desiderio, cessa poco dopo anche il godimento, poiché subentra la noia, perciò la vita umana è come un pendolo che oscilla tra dolore e noia. Il dolore non riguarda soltanto l’uomo, ma è quindi universale, l’uomo soffre di più perché ha maggior consapevolezza. Il mondo secondo Schopenhauer è una lotta di tutti gli esseri per sopravvivere, uccidendo gli altri. L’amore, che sembra uno dei più forti stimoli dell’esistenza, è in realtà il mezzo attraverso cui la natura perpetua la vita, infatti il solo scopo dell’amore è la riproduzione, perciò l’individuo è ingannato dalla natura proprio dove credeva di trovare appagamento. Non c’è quindi amore senza sessualità. Esso è concepito inoltre come vergogna perché è un delitto, in quanto mette al mondo un’altra creatura destinata a soffrire.
Rifiuto dell’ottimismo
Schopenhauer rifiuta anche i vari tipi di ottimismo. Rifiuta l’ottimismo cosmico, che vede il mondo come un organismo perfetto governato da una ragione, poiché il mondo è irrazionale, e questo è visibile nella natura dove vige la legge della giungla. Rifiuta l’ottimismo sociale, poiché secondo lui l’uomo è cattivo per natura, ed è invidioso del benessere altrui (vedi aneddoto del ragno). Gli uomini stanno insieme solo per bisogno, ma la vita è solo un inferno di egoismi. Rifiuta anche l’ottimismo storico: la storia è una scienza imperfetta perché studia la successione dei fatti catalogna doli, e in ogni caso secondo lui il principio che regola l’universo è sempre quello, per cui non c’è niente di nuovo, ma la storia è sempre un ripetersi di drammi.
La liberazione dal dolore
Nonostante la vita sia dominata dal dolore, Schopenhauer condanna il suicidio, poiché chi si suicida vuole la vita ed è solo malcontento delle condizioni che ha, e inoltre il suicidio uccide solo l’individuo, non la volontà stessa. La vera risposta al dolore è la liberazione dalla volontà di vivere, attraverso tre tappe: l’arte, la morale e l’ascesi. L’arte è l’unica attività che si rivolge non ai fatti contingenti, ma alle idee, e per questo il soggetto, contemplandole, si solleva dalle esigenze della volontà, poiché viene appagato. La musica è la forma suprema di arte. La funzione liberatrice dell’arte è solo temporanea, perciò l’uomo deve dedicarsi alla vita morale, che consiste nel superare l’egoismo e interrompere la lotta incessante di tutti contro tutti. L’egoismo può essere superato con la pietà verso gli altri, che nasce dal sentire che come noi soffrono tutti gli altri (compatire = sentire insieme). La morale si concretizza in due virtù: la giustizia, che consiste nel non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, e la carità , che consiste nel fare del bene al prossimo: la carità è vero amore poiché disinteressato a differenza dell’eros. Nonostante ciò la pietà è sempre all’interno della vita, e per liberarsi totalmente non rimane che l’ascesi. Quando l’uomo è giunto a conoscenza della sua condizione, tramite l’ascesi giunge alla soppressione della volontà di vivere, e giunge in quello stato di grazia che conduce poi al nirvana buddista, cioè all’esperienza del nulla, la negazione completa del mondo.

KIERKEGAARD
K. nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813, ultimo di sette fratelli, dalle seconde nozze del padre
(con la domestica). Quando Søren nasce il padre aveva 56 anni e la madre 44; cinque suoi fratell(con la domestica). Quando Søren nasce il padre aveva 56 anni e la madre 44; cinque suoi fratelli morirono prima di lui. Di temperamento malinconico, introverso e riflessivo, K. ebbe dal suo ambiente familiare un senso di maledizione incombente, e non ebbe una giovinezza spensierata.
La sua fede, molto forte, si ispirò più alla drammaticità del Crocifisso che alla letizia dell'incontro cristiano. Come ricordano dei suoi studiosi gli furono da subito familiari concetti come il dolore, il peccato, il sangue e decise di vivere da penitente, dedicandosi tutto al rapporto con Dio e alla sua vocazione di scrittore.
Nel 1841 ascoltò Schelling a Berlino, rimanendone dapprima entusiasta (era lo Schelling della filosofia positiva, con la sua sottolineatura dell'esistente), poi deluso.
Bersagli polemici:
la Cristianità stabilita
Kierkegaard critica il Cristianesimo intiepidito quale era vissuto dalla Chiesa luterana del suo tempo, che aveva dimenticato la portata radicale del Vangelo, il suo essere scandalo e paradosso e ne aveva fatto una comoda religione del buon senso comune, una moralità fatta di massime razionalmente condivisibili. In particolare nel 1846 va segnalata la sua polemica con Il Corsaro. Hegel
la verità soggettiva
Da Hegel lo differenzia il concetto di soggettività della verità, da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica, ma deve illuminare l'esistenza.
Invece la verità che interessa K. è quella che fa "comprendere se stesso nell'esistenza" (Postilla)
"se stesso": a) singolo irriducibile all'organismo storico-statale, irriducibile a momento dello sviluppo dialettico dello Spirito; e b) chiamato a scegliere (aut-aut), per il quale dunque la verità non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato (a differenza di Socrate);
K. interpreta anche la celebre definizione tomista di verità come adaequatio intellectus ad rem:
l'intellectus, che si "adegua" alla realtà, non è nè la Ragione trascendentale, nè un Ragione astratta, ma il "pensiero soggettivo" del concreto esistente;
a cui preme non l'essere-in-sé, un essere astratto, conosciuto sistematicamente, ma la propria esistenza (a cui è "infinitamente interessato", Postilla), fatta di eventi contingenti, non deducibili dalla necessità dell'Idea, dunque drammatica. In ciò polemizza tanto contro la tranquillità della coscienza hegeliana, per la quale tutto è necessario e razionale, quanto contro la Cristianità stabilita, che non coglie il carattere drammatico della vita).
Palando del Giudizio Universale K. immagina che su quattro che si presenteranno al Supremo Giudice, tre non cristiani, ma con sofferente ricerca, e uno cristiano, anzi professore universitario, ma animato dalla presuntuosa convinzione di aver spiegato il Cristianesimo, sarà proprio quest'ultimo ad essere nella situazione peggiore. 
la dialettica
Hegel, con la sua dialettica dell'et-et, sintetizzava gli opposti: per lui non c'è antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una sintesi. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva, si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità della libertà personale.
Kierkegaard invece sottolinea con forza appunto una prospettiva incentrata sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera, e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, che dispensa dalla scelta un singolo visto come trascinato dall'inesorabile flusso della collettività storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile, indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale, in cui ne va del proprio destino eterno.
gli "stadi" dell'esistenza (in aut-aut)
La filosofia deve interessarsi essenzialmente dell'esistenza, e l'esistenza può, in ultima analisi, avere tre forme, o stadi: estetico, etico e religioso. La tripartizione kierkegaardiana può trovare delle analogie, oltre che con il ritmo ternario che Hegel aveva ripreso da una tradizione medioevale, con la teoria dei tre ordini di Pascal: la materia (estetica), lo spirito(etica), la carità (religiosità). Tra uno stadio e l'altro il passaggio non è necessario automatismo, ma salto, effettuabile solo dalla libertà del singolo.
1. estetico [tesi / pura particolarità /sensibilità ]
L'uomo che vive in questa forma, l'esteta, rifiuta tutto ciò che è impegnativo, ripetitivo, serio:
"chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento"
L'esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l'istante fuggevole che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro. Per questo "la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi" senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello affettivo, quanto a livello sociale.
Figura-simbolo della vita estetica è il Don Giovanni, il seduttore, che non si lega mai ad una donna, ma passa senza sosta da una donna all'altra, nessuna amando mai veramente, senza vera storia e senza prospettiva.
L'esteta in tal modo fugge continuamente da sé stesso, distraendosi nell'esteriorità (in una esteriorità alienante, si potrebbe dire), ed è contrassegnato dalla noia (come dice Kierkegaard in Aut-aut), ed è in fondo, lo sappia o no, disperato.
2. etico [antitesi / pura universalità /ragione ]
È caratterizzato da stabilità, fedeltà, ripetitività: figura-simbolo ne è il matrimonio; in questo stadio l'uomo si sottopone a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma l'universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione piena dell'umano.
Un uomo che voglia essere davvero serio, e non rigoristicamente e farisaicamente serioso, deve infatti riconoscere che nella sua vita c'è il peccato e ci sono quella angosce e quella disperazione che la semplice razionalità e l'osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; anzi in questo stadio l'uomo non riesce a guardare in faccia davvero la Medusa terribile del suo proprio male. Per raggiungere la verità di sé e della propria vita bisogna andare oltre: solo se amato da un Altro, che sia Infinita Misericordia l'uomo può guardare davvero a sé come a un "io". Perciò il passo ultimo della vita etica è il pentimento , il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo, ma questo lo spinge a trapassare nello stadio religioso.
c. religioso [sintesi / di universale e particolare/ fede ]
In questo stadio soltanto l'uomo affronta fino in fondo sé stesso, quell'io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non riusciva a capire e a risolvere, ossia l'angoscia e la disperazione.
Tali aspetti non sono, per Kierkegaard, stati d'animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a sé e al mondo.
a. ex parte obiecti l'angoscia (trattato ne Il concetto dell'angoscia)
L'angoscia è strutturale in ogni essere umano, in quanto radicata nella sospensione della conoscenza umana (riferita essenzialmente al futuro) tra il sapere del puro immediato (tipicamente animale) e il sapere della totalità concreta (angelico-divino): non è angosciato chi del futuro sa tutto (Dio) o chi non ne sa nulla (l'animale, che vive esaurientemente nell'istante presente). Il suo oggetto è l'indeterminatezza del futuro, il futuro in quanto indeterminato, e in tal senso l'angoscia, il cui oggetto è appunto l'indeterminato, differisce dalla paura, che è sempre paura di un determinato.
b. ex parte subiecti la disperazione (trattato ne La malattia mortale)
Se l'angoscia è relativa a ciò che potrebbe accadere, e di cui sappiamo/non-sappiamo, nell'ambito della oggettività dei rapporti intersoggettivi, la disperazione è riferita alla nostra stessa soggettività. Essa significa che l'uomo non riesce ad accettare sé stesso: dispera di essere sé stesso. Essere sé stesso infatti non è automatico, dato che la nostra natura è complessa, è sintesi di fattori tra loro in dialettica, la finitezza e l'infinitezza, la necessità e la possibilità. Normalmente gli uomini soni disperati, perché rinunciano ad essere integralmente sé stessi, rinunciano al loro vero io, e puntano solo su quel fattore del proprio io che meglio riescono a controllare: chi punta sulla finitezza (/necessità) e chi sulla infinitezza (/possibilità), gli uni buttandosi nella sola materialità, gli altri in uno spiritualismo disincarnato e puramente intellettuale/sentimentale.
La sua vera soluzione è solo il Cristianesimo, che permette all'uomo di guardare alla verità, complessa, di sé. Esso ci si presenta come ineludibile problema: quell'Uomo, Cristo, pretende di essere la mia felicità, la risposta al mio bisogno più urgente e fondamentale: non posso ignorarlo, devo sapere se dice il vero o no.
Kierkegaard insiste nel presentare la fede come scandalo e paradosso: è un salto reale oltre la semplice razionalità.
Si cresce nella verità, e nella verifica della fede, rischiando per essa, non pretendendo di conservarla per così dire in freezer, come pensava l'intellettualismo socratico.
INTERPRETAZIONI E EREDITÀ
L'interesse per K., dapprima limitato all'area scandinava, si sviluppò subito dopo la Prima Guerra mondiale, ad esempio nella cultura filosofica di indirizzo esistenzialista (come Karl Jaspers), che a lui si ispirò, e nella "teologia dialettica".
Lucacs se ne interessò: dapprima valorizzandolo (ne L'anima e le forme, 1911), poi (ne La distruzione della ragione, 1954) criticando in lui un irrazionalismo di stampo borghese-reazionario.
Karl Löwith (Da Hegel a Nietzsche) vide in lui al contempo la crisi del mondo cristiano-borghese, e il ritorno al Cristianesimo primitivo.
Jean Wahl (Etudes kierkegaardiennes, Parigi 1938) può essere ricordato per il suo bilancio sull'influenza di K. nella cultura francese.
In Italia K. è stato studiato con attenzione, tra gli altri, da Enzo Paci e da Luigi Pareyson (Esistenza e persona, 1950; Studi sull'esistenzialismo, 1971); un confronto positivo col la tradizione tomista è stato sviluppato da Cornelio Fabro.
Segnaliamo, tra le altre, l'interpretazione di Abbagnano, insigne studioso, da cui dobbiamo in questo caso dissentire. Inaccettabile ci appare la sua lettura di Kierkegaard come di uno che per sondare tutte le possibilità avrebbe rinunciato a scegliere, optando per una "condizione eccezionale di indecisione e di instabilità", per cui "il centro del suo io è di non avere un io" (3°vol. Filosofi e Filosofie nella storia, Paravia, Torino 1986, 165); secondo Abbagnano la sua scelta di nascondersi dietro pseudonimi starebbe ad indicare il suo non impegno a scegliere tra le diverse possibilità.
Ma in Kierkegaard troviamo un continuo invito alla scelta, da lui vista come la cosa più fondamentale della vita. Che poi il suo temperamento fosse sensibile e malinconico, e in qualche modo poco portato ad adottare decisioni nette nella propria vita, è altra questione.

Marx
Karl Marx (1818-1883) elabora una filosofia che è un’analisi globale della società e della storia, in grado di investire l’intero sistema capitalistico. La filosofia di Marx è legata alla prassi, cioè la tendenza a unire all’interpretazione, anche l’impegno della rivoluzione. Le sue opere principali sono Gli annali franco-tedeschi, i Manoscritti economico, filosofici, l’ideologia tedesca, Il Manifesto del partito comunista, il Capitale, La guerra civile in Francia e la Critica del programma di Gotha.
Rapporto con Hegel
La prima cosa che Marx rimprovera ad Hegel è di fare della realtà una manifestazione necessaria dello Spirito, che lo porta ad accettarla così com’è, incluso il tipo di società: questo è chiamato “misticismo logico” e deriva dal capovolgimento dei rapporti che aveva individuato Feuerbach nell’idealismo. A questo metodo Marx oppone il metodo trasformativo, che consiste nel ri-capovolgere i rapporti soggetto-predicato. Nonostante ciò, Marx dà merito ad Hegel di vedere tutto dal punto di vista della dialettica e dello scontro, anche se riconosce che nella realtà la sintesi non s empre è possibile.che lo porta a fare della rela ad Hegel è di fare della relatà una manifestazione necessaria dell Spirito uomini, e aver rove
Critica al liberalismo
Marx è convinto che nella civiltà moderna vi sia una scissione tra società civile e Stato, per cui un uomo vive una vita in terra come borghese, e una nello Stato come cittadino. Ma la sfera dello Stato è illusoria poiché non è lo Stato che conduce la società civile al bene comune, ma è questa che abbassa lo stato a strumento delle classi più forti. Per cui lo stato riflette gli interessi di particolari gruppi. La scissione che si è venuta a creare è causata dai principi borghesi della libertà individuale, del principio di rappresentanza, ma soprattutto della proprietà privata, che va abolita. Marx elabora quindi una democrazia in cui l’individuo è parte del tutto, e individua come mezzo per arrivarci la rivoluzione.
Critica all’economia borghese e alienazione
Secondo Marx l’economia borghese fornisce un’immagine falsa del mondo borghese, in quanto non pensa in modo dialettico durante la storia. Essa infatti eternizza il sistema capitalistico,come se fosse l’unico modo, e considera la proprietà privata come un postulato. Inoltre nasconde la conflittualità interna tra capitalisti e salariati, che si realizza nell’alienazione dell’operaio. Infatti per Marx il lavoratore: è alienato rispetto al prodotto che produce; è alienato rispetto alla sua attività; è alienato rispetto alla sua essenza di lavoratore libero e creativo; è alienato rispetto al prossimo, poiché l’altro è il capitalista che lo sfrutta togliendogli il frutto del proprio lavoro.
Rapporto con Feuerbach
Secondo Marx il principale merito di Feuerbach è quello di aver riscoperto la naturalità e concretezza degli uomini, e aver rovesciato i rapporti soggetto-predicato hegeliani. Feuerbach però ha ignorato la storicità e la socialità dell’uomo, che fanno sì che l’uomo sia frutto del tipo di società e del periodo storico in cui vive, secondo Marx. Feuerbach ha anche scoperto l’alienazione religiosa, ma non ha capito che la religione è il prodotto di un’umanità alienata e oppressa, che cerca nell’aldilà ciò che qui le è negato. L’unico modo per eliminare la religione non è criticarla, ma trasformare la società. Torna quindi importante la prassi, cioè il legame con l’azione.
Concezione della storia
Il discorso storico di Marx presuppone una contrapposizione tra scienza reale e ideologia: quest’ultima secondo Marx è una falsa rappresentazione, per cui si percepiscono deformati i rapporti tra le cose. Nell’ideologia tedesca Marx spiega la sua concezione della storia. Secondo lui l’umanità è una specie di individui associati che lottano per sopravvivere, perciò la storia è innanzitutto una dialettica bisogno-soddisfacimento. La caratteristica principale dell’uomo è quella di saper produrre da sé i mezzi per soddisfare i suoi bisogni, perciò alla base della storia vi è il lavoro. Nell’ambito della produzione della sussistenza, ci sono secondo Marx due elementi di fondo: la forze produttive, che sono costituite dagli uomini, dai mezzi e dalle conoscenze, e i rapporti di produzione, i rapporti che regolano il possesso e l’impiego dei mezzi di lavoro, e trovano espressione nei rapporti di proprietà. Forse produttive e rapporti di produzione costituiscono il modo di produzione, la base economica della società. La base economica è chiamata struttura, intesa come scheletro della società sulla quale si colloca la sovrastruttura, intesa da Marx come l’insieme dei rapporti politico-giuridico-culturali, che non sono nient’altro che espressione della struttura. La sovrastruttura è quindi condizionata dalla struttura: da qui il termine materialismo. Le idee possono influire sugli avvenimenti storici, ma poco, i veri cambiamenti si hanno quando cambia la struttura. Ad un determinato grado di sviluppo delle forze produttive, corrispondono determinati rapporti di produzione e di proprietà: quando i rapporti di produzione non favoriscono più le forze produttive, essi vengono distrutti e cambiati. Ora poiché le forze produttive si sviluppano più rapidamente, ne segue che ci sarà periodicamente una contraddizione tra i due che porta a una rivoluzione. Infatti le nuove forze produttive hanno una classe in ascesa, i vecchi rapporti di produzione una vecchia classe al tramonto, e dallo scontro tra di esse trionferà la classe in ascesa che imporrà le proprie idee. Tutte queste considerazioni permettono a Marx di dividere la storia in epoche caratterizzate da diversi RP e FP: la società comunista primitiva,la società asiatica, la società antica, la società feudale,la società capitalista, e infine il socialismo come sbocco inevitabile della storia.
Manifesto del partito comunista
Nel Manifesto del partito comunista, Marx espone al mondo gli scopi e i metodi dell’azione rivoluzionaria. Nella prima parte egli analizza la funzione storica della borghesia, che a differenza delle classi del passato, che tendevano alla conservazione dei modi di produzione, la borghesia deve modificare continuamente il modo di produrre, ed è perciò una classe dinamica. Essa inoltre ha unificato per la prima volta il genere umano, per l’esigenza di un mercato globale. Per la borghesia ha generato forze produttive che non riesce più a controllare, cioè la classe operaia, che si ribellerà contro questi rapporti basati sul profitto personale, quando invece il lavoro è sociale. Si arriva così alla seconda parte, in cui Marx vede la storia come un susseguirsi di lotte di classe, che deriva dallo squilibrio tra forze produttive e rapporti di produzione. La lotta di classe secondo Marx deve essere internazionale. Infine nella terza parte Marx critica i socialismi precedenti, che divide in tre tendenze. Il socialismo reazionario attacca la borghesi a per tornare al passato pre-industriale, ed è quello dei feudali o della piccola borghesia artigianale. Il socialismo conservatore, o borghese, è costituito da quei pensatori che vogliono rimediare ai problemi del capitalismo eliminando i suoi aspetti negativi, senza rimuoverlo, non accorgendosi che il capitalismo produce inevitabilmente i suoi inconvenienti per la contraddizione di fondo. Infine il socialismo utopistico è quello dei pensatori come Saint-Simon od Owen, che pur riconoscendo l’antagonismo tra le classi, non scorge nella rivoluzione proletaria la soluzione, ma in una serie di riforme che vengono da tutte le classi che compongono la società, e sono per questo moralisti ed utopisti. Inoltre il loro pensiero è solo ideale, sganciato dalla realtà, mentre quello di Marx è scientifico, cioè opera un’analisi critica, ed è legato alla prassi, cioè alla trasformazione in azione del pensiero.
Il capitale
Il capitale mette in luce i meccanismi del capitalismo, analizzati secondo il metodo storico dialettico. La caratteristica del capitalismo è la produzione di merci. Una merce deve possedere un valore d’uso (essere utile) e un valore di scambio, dato dal lavoro impiegato per produrla. Il prezzo deriva dal valore d’uso, di scambio e dalla disponibilità di tale merce (in condizioni di normalità il valor di cambio corrisponde al prezzo). Il feticismo delle merci consiste nel considerare le merci come aventi valore di per sé. La produzione non risulta finalizzata al consumo ma all’accumulazione di denaro, secondo il ciclo DMD’ e non MDM. Lo scopo è quindi ottenere più denaro, quindi un plus-valore, che deriva non dal denaro stesso, che è un mezzo, né dallo scambio, che deve essere equivalente. Deriva dal lavoro svolto dall’operaio, che viene pagato meno del valore delle merci che produce. Il plus-valore è quindi un lavoro non pagato dell’operaio, che può produrre più valore di quello che gli è dato dal salario. Questa è la spiegazione scientifica dello sfruttamento, e avviene perché il capitalista dispone dei mezzi di produzione. A questo punto Marx distingue il plus-valore, che è il guadagno del capitalista, e il capitale variabile, che è il denaro per i salari: il rapporto tra i due costituisce il saggio del plus valore. Ma il capitalista deve investire denaro anche in macchinari (capitale costante), perciò il saggio del profitto è il rapporto tra il plus-valore e la somma di capitale costante e variabile. Il fine del capitalismo è il maggior plus-valore possibile, e questo avviene aumentando la produttività, introducendo nuove macchine che lavorano come più operai ininterrottamente. L’aumento della produttività, unito all’anarchia della concorrenza tra capitalisti, genera crisi cicliche di sovrapproduzione, che causa la distruzione dei beni e la disoccupazione, che fa aumentare l’esercito industriale di riserva. La necessità di rinnovamento genera la caduta tendenziale del saggio del profitto, poiché l’aumento del denaro speso in capitale variabile fa calare il rapporto, posto costante il capitale variabile e quindi il plus-valore. Il rendimento, anche se attenuato da stratagemmi, calerà in proporzione sempre di più. Alcuni criticano questa legge perché dicono che un miglioramento delle macchine comprende anche un aumento della produttività. In ogni caso la caduta del profitto, unito alle crisi e all’anarchia, fa si che la società si scinda sempre di più in due classi (per Marx nella storia le classi fondamentali sono due), a causa dell’espropriazione di molti capitalisti da parte di pochi. Si avrà quindi un’enorme aumento della massa operaia, su scala mondiale, a cui toccherà con la rivoluzione, prendere il potere. Questo deriva dalla contraddizione di fondo del capitalismo, cioè che il lavoro sociale viene prodotto con mezzi di produzione privati.
Rivoluzione e società comunista
Il proletariato, una volta preso il potere, deve procedere a smantellare la vecchia società verso il comunismo. La rivoluzione comunista però non porta un nuovo tipo di proprietà o di classe, ma abolisce le classi e la proprietà, attraverso la socializzazione dei mezzi di produzione. La rivoluzione deve anche mirare ad abbattere la sovrastruttura borghese, poiché deriva dalla struttura borghese che va eliminata. Subito vi sarà la dittatura del proletariato, necessaria per costruire il comunismo e difendersi dagli attacchi della vecchia borghesia. Essa tuttavia è solo una transizione, che mira al superamento di sé stessa e dello Stato, anch’esso sovrastruttura borghese. Successivamente vi sarà una fase di comunismo rozzo, che ha ancora in sé i rapporti della vecchia società: in questo stadio la proprietà non viene soppressa ma universalizzata, ogni uomo diventa salariato e la comunità diventa una sorta di grande borghese. Il lavoro in questa fase viene pagato ugualmente a tutti. Successivamente si arriverà al vero comunismo, in cui la proprietà è definitivamente soppressa e l’uomo non ha più rapporti di possesso e consumo. Inoltre in questa fase verrà abolita la divisione del lavoro, e il lavoro verrà effettuato secondo le proprie capacità e pagato secondo i propri bisogni. Li si viene così a creare la società che amministra le cose e non le persone, e cessa lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Positivismo
Il positivismo è un movimento filosofico che nasce in Francia nella prima metà dell’800 e si sviluppa nella seconda metà. Esso ha come caratteristica principale l’esaltazione della scienza, in quanto unica conoscenza possibile, la tendenza ad applicare ad ogni cosa il metodo scientifico, in quanto unico valido, il rifiuto della metafisica, ed una generale fiducia nelle capacità umane, che portano ad un continuo progresso della società. I maggiori esponenti sono:

Comte
August Comte (1798-1857) muove tutta la sua filosofia a partire dalla Legge dei tre stadi: con essa Comte suddivide l’intera storia dell’umanità, quindi anche le scoperte scientifiche e la cultura, in 3 momenti: un momento teologico, uno metafisico e uno positivo, ciascuno caratterizzato da uno specifico approccio ai fenomeni naturali. Nel teologico l’uomo cerca la causa dei fenomeni all’esterno di essi, e lo trova in entità soprannaturali. Nel metafisico cerca la causa dei fenomeni all’interno dei essi, e lo trova nella sostanza. L’approccio corretto è però quello positivo, in cui l’uomo si rende conto che non deve cercare le cause dei fenomeni ma le leggi del loro funzionamento, cioè le loro relazioni. Comte fa corrispondere ad ogni stadio una specifica organizzazione politica (teocrazia medievale, sovranità popolare, organizzazione scientifica della società). Comte si rende conto che non tutti gli aspetti della vita umana hanno raggiunto lo stadio positivo, e perciò l’umanità è ancora in crisi: lo scopo della filosofia è quello di costruire un sistema di idee generali a tutte le scienze, ed ordinarle in modo scientifico. A questo scopo Comte redige una tavola di classificazione delle scienze speculative, graduandole secondo un ordine di complessità crescente, e di generalità decrescente. La scienza a cui tutte le altre sono subordinate, per Comte, è la sociologia, che ha lo scopo di determinare le leggi della società in modo da poterla organizzare in modo positivo. Essa si divide in statica sociale, che studia le relazioni nella società, il suo ordine, come il rapporto tra regime politico e stadio sociale raggiunto, e dinamica sociale, che studia il progresso della società, per cui ogni stadio raggiunto dalla società è il risultato del precedente e il motore del seguente. La sociocrazia è quel regime politico fondato sulla sociologia, che Comte si auspicava, ma che non era un regime liberale, bensì assolutista, poiché il liberalismo era considerato disordine. Il fine ultimo della scienza secondo Comte è quello di capire il funzionamento dei fenomeni in modo da poterli prevenire, e potere perciò volgere a favore dell’umanità i loro effetti. Nel sistema di politica positiva Comte trasforma la filosofica positiva in una religione, in cui vi è il culto dell’Umanità, intesa come l’insieme di tutti gli uomini passati, presenti e futuri, che si sviluppa durante tutta la storia. La morale del Positivismo secondo Comte è l’altruismo, che è parte degli istinti dell’uomo.

Nietzsche
Friedrich W. Nietzsche nasce a Lipsia nel 1844 e muore a Weimar nel 1900. L’edizione delle sue opere è stata curata dalla sorella Elizabeth, che le revisionò dopo la morte del fratello avvicinandola alle teorie del nazismo. In realtà non tutta la responsabilità di ciò è da attribuire alla sorella, poiché le troie di Nietzsche contengono indubbiamente una componente antidemocratica e reazionaria. Le interpretazioni naziste sono poi state contestate nel dopoguerra.
Il pensiero di Nietzsche si configura come una radicale messa in discussione dell’intera civiltà e filosofia occidentale, con la delineazione di un nuovo tipo di umanità capace di superarla. Negli stili giovanili il suo stile è ancora quello del trattato, mentre a partire dalla filosofia del meriggio assume uno stile ricco di aforismi, o che si ispira alla scrittura in versetti.
Periodo giovanile, wagneriano-schopenaueriano
Il tema centrale dell’opera La nascita della tragedia è la distinzione tra apollineo e dionisiaco. Essi sono i due impulsi di base dello spirito umano: l’apollineo è un impulso alla forma, alla stabilità, si configura nella fuga dal divenire e si esprime con l’immagine; il dionisiaco è un impulso istintuale al piacere, al cambiamento, si configura come un’accettazione del divenire e si esprime con la musica. Alle origini vi era solo il dionisiaco, l’apollineo nasce per mettere ordine al caos. Nella Grecia presocratica questi due impulsi erano separati ed opposti, ma nell’età della tragedia di Sofocle ed Eschilo essi si unirono in armonia. Successivamente questa sintesi cade, a causa della prevalenza di apollineo su dionisiaco, che si compie con la filosofia di Socrate, che sopprime il dionisiaco. Infatti, secondo Nietzsche la vita, come per Schopenauer, è dolore e sofferenza, e l’uomo vi si può rapportare in due modi: o rinunciando ad accettarla e fungendo da essa (ascesi, morale cristiana), oppure accettarla e giungere al superamento dell’uomo. La vita si configura quindi come un conflitto fra gli impulsi di basse dell’uomo, e solo l’arte può esprimere tale conflitto. Perciò l’arte nella fase giovanile è l’organo della filosofia, ed ha una funzione metafisica.
Periodo illuministico, filosofia del mattino
In questo periodo Nietzsche ripudia i maestri della gioventù, e privilegia l’ottica della scienza sull’ottica dell’arte, a causa del metodo critico che la scienza porta con sè: per questo motivo si chiama periodo illuminista. Grazie al metodo critico, l’uomo può liberarsi dalle vecchie credenze, come morale e metafisica, e inaugurare una nuova “filosofia del mattino” in cui la critica porta al concetto di “morte di Dio”. Per Nietzsche Dio è il simbolo di ogni prospettiva che colloca il senso dell’essere in un altro mondo rispetto a questo, e perciò incarna la fuga dall’essenza della vita, cioè la prevalenza dell’apollineo sul dionisiaco, e inoltre è la personificazione di tutte le credenze metafisiche dell’umanità, infatti l’immagine di un cosmo ordinato o l’esistenza della morale sono credenze che l’umanità si è data per sopportare la durezza della realtà. La morte di Dio è un trauma per l’uomo normale, e porta con sé anche il nichilismo, che è l’atteggiamento che ha l’uomo verso la perdita dei valori e delle certezze. Tanto più l’uomo si è immaginato certezze metafisiche e fini assoluti, tanto più è rimasto deluso dal vuoto lasciato dalla morte di Dio. L’uomo normale è perciò portato a credere che la realtà non abbia nessun senso. Vi sono due tipi di nichilismo secondo Nietzsche: il nichilismo incompleto, che sostituisce a Dio altri idoli come la scienza o lo stato, e il nichilismo completo. Il nichilismo completo è passivo se porta a non dare un senso alla vita, mentre è attivo se oltre a distruggere i valori prece dentine inventa di nuovi: questo è il compito del superuomo.
La morte di Dio segna quindi il tramonto del platonismo, che incarna la metafisica per eccellenza dell’occidente, poiché è stata la prima a collocare il vero in un altro mondo rispetto al nostro, e rivela che il mondo fino ad allora è stato una favola. Questo processo nella storia si divide in 6 fasi: nella prima, con Platone, il mondo vero era attingibile dai saggi; nella seconda, col cristianesimo, il mondo vero viene promesso ai saggi; nella terza, con Kant, il mondo vero, il noumeno, viene e ridotto ad un postulato morale; nella quarta, col positivismo, il mondo vero viene definito inconoscibile; nella quinta il mondo vero si rivela inutile e superfluo; nella sesta si ha l’eliminazione della duplicità tra mondo vero e mondo apparente, e coincide con la morte di Dio. A tutto ciò si è giunti tramite l’autosoppressione della morale, infatti è proprio grazie ai valori dell’onestà e della verità trasmessi dal cristianesimo che si è arrivati a decretare la fine delle credenze metafisiche.
Periodo di Zarathustra, filosofia del meriggio
Con la fine della scissione della realtà e la morte di Dio si aprono all’uomo due possibilità: l’ultimo uomo (?) o il superuomo, annunciato da Nietzsche in Così parlo Zarathustra. Il superuomo esprime tutte le caratteristiche del pensiero di Nietzsche e rappresenta colui che accetta la vita nella sua durezza, facendo prevalere lo spirito dionisiaco, accetta la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute, decidendo l’eterno ritorno e seguendo la volontà di potenza. In sostanza il superuomo è un nuovo tipo di uomo che è capace di inventare nuovi valori e di rapportarsi alla realtà in modo diverso, totalmente libero. Esso è parte della terra, ed è solo corpo, non c’è anima o spirito. L’evoluzione a superuomo è sintetizzata da Nietzsche in tre fasi: il cammello, che porta il fardello della metafisica, che diventa leone, libero da questi fardelli, e poi fanciullo, totalmente libero di inventare la propria vita. La genesi del superuomo non riguarda tuta l’umanità, ma solo una ristretta èlite, che si erge al di sopra della massa e che domina gli uomini normali. Il superuomo decide anche l’eterno ritorno, infatti la realtà è una ripetizione eterna di tutte le vicende del mondo, secondo Nietzsche. La prima reazione di fronte a tale scoperta è lo sconforto, mentre il superuomo manifesta gioia. Infatti la ciclicità del tempo si contrappone ad una visione lineare in cui ogni momento dipende dal precedente e dal successivo, e non è possibile vivere ogni momento per quello che è.
Altra caratteristica del superuomo è la volontà di potenza, che è la sua essenza, e si identifica con la spinta del superuomo all’autoaffermazione, alla vita dionisiaca, al potenziamento e al superamento di sé stessi. La vita per Nietzsche non è solo volontà di sopravvivenza, come per Schopenauer, ma volontà di potenza. Tale potenziamento si identifica con una creazione, perciò Nietzsche rivaluta l’arte. Con la volontà di potenza il superuomo inventa nuovi valori e decide la sua vita, accettando l’eterno ritorno e distruggendo l’immobilità del passato, superando lo spirito di vendetta che aveva caratterizzato l’umanità e giungendo all’amor fati, cioè l’amore per il destino. Caratteristica della volontà di potenza è anche la sopraffazione dei più deboli, l’affermazione del superuomo sull’uomo normale.
Ultimo Nietzsche
Nelle opere dell’ultimo periodo Nietzsche si concentra sulla critica alla morale e al cristianesimo. Infatti la morale secondo Nietzsche si è sempre data come imposizione all’individuo, non ci si è mai posti il problema della morale. Secondo Nietzsche lo coscienza, da cui procede la morale, non è nient’altro che la presenza in noi delle autorità che ci hanno educato, e non è la voce di Dio nell’uomo, ma la voce di alcuni nell’uomo. Essa nel mondo classico era espressione dell’aristocrazia, ed era improntata a valori vitali come la forza, la bellezza, mentre col cristianesimo è diventata espressione dei deboli, dell’umiltà, del sacrificio. Questo è avvenuto secondo Nietzsche perché la morale dei signori, oltre agli aristocratici, riguardava anche i sacerdoti, che coltivavano le virtù dello spirito. Ma essi provavano invidia verso i guerrieri, e non potendo dominarli hanno elaborato ed affermato una morale antitetica a quella dei cavalieri, rovesciando i valori e inibendo gli impulsi dionisiaci. Il cristiano è perciò un uomo represso.
Nell’ultimo Nietzsche vi è anche una riflessione sul prospettivismo, infatti secondo Nietzsche non esistono cose o fatti, ma solo l’interpretazione dei fatti, che solo il modo in cui l’uomo dà ordine al caos del mondo. Ma vi sono molteplici interpretazioni del mondo, alla base dei quali stanno diversi bisogni collegati alla volontà di potenza. Le verità stabili non sono altro che illusioni, perciò non esistono neanche criteri immutabili di verità e falsità, ma interpretazioni che sono valutabili a seconda della loro forza.

Freud
Sigmund Freud nasce in Moravia nel 1856, da piccolo si trasferisce a Vienna, dove si laurea in medicina. Con l’Anschluss è costretto a fuggire a Londra nel 1938, e l’anno dopo morirà. Gli studi di Freud partono dall’isteria, una patologia poco considerata nell’800, quando tutti i disturbi della psiche venivano considerati in maniera somatica, per cui non si dava importanza a ciò che non derivava da lesioni o problemi simili.
Prima topica
Dagli studi sull’isteria, Freud elabora la sua prima topica, dove spiega che la struttura della psiche. Il conscio è la parte cosciente della psiche. L’inconscio, scoperto da Freud, è quella parte profonda dell’uomo al quale il soggetto non riesce ad accedere, ed è sede di tutto ciò che è rimosso. Si divide in due parti: il preconscio, dove hanno sede i ricordi momentaneamente inconsci, che possono essere ricordati con uno sforzo mnemonico; l’inconscio vero e proprio, dove hanno sede i ricordi rimossi completamente, e che possono essere recuperati solo tramite tecniche apposite. Inizialmente Freud pensò di usare l’ipnosi, ma gli scarsi risultati lo portarono ad elaborare il metodo delle associazioni libere: rilassando il paziente e facendolo abbandonare al corso dei propri pensieri, è possibile giungere ai ricordi rimossi grazie all’associazione tra le cose dette dal paziente, che convergono nel rimosso. Un altro metodo è quello del transfert, con cui il paziente trasferisce sulla persona dell’analista la figura del genitore: questo è favorevole se vi era amore nel genitore, e porta il paziente alla totale sincerità.
Seconda topica
La psiche è ulteriormente scomposta da Freud nella seconda topica: L’es è la sede delle pulsioni istintuali, la forza che non conosce regole e che obbedisce solo alla legge del piacere; il super-io è l’insieme delle proibizioni che sono state imposte all’individuo fin da bambino; l’io è la parte organizzata della personalità ed ha il compito di mediare tra es, super-io, e mondo esterno. Deve infatti stabilire un’armonia, agendo sulla realtà soddisfacendo l’es ma senza violare gli imperativi del super-io. Un soggetto normale è capace di ciò, mentre un super-io o un es troppo forti portano alla nevrosi o a comportamenti asociali. Freud rivela quindi la struttura conflittuale della psiche
Sogni e sessualità
Secondo Freud i sogni sono la via che porta alla scoperta dell’inconscio, infatti essi sono l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso. Nei sogni c’è infatti un contenuto manifesto, che è la scena del sogno, e un contenuto latente, che è il desiderio che dà origine al sogno. Questi desideri vengono camuffati perché sono inaccettabili dall’individuo, e vengono perciò censurati. Anche tutti i contrattempi, lapsus, della vita quotidiana, non sono casuali, ma sono espressione di tendenze rimosse, che cercano di venire a galla. Gli impulsi rimossi secondo Freud sono sempre di natura sessuale, perciò egli elabora la sua teoria secondo cui la sessualità è presente nell’uomo fin da bambino. Essa è basata sulla libido, ossia la tendenza al piacere che si sviluppa in diverse zone erogene. Il bambino secondo Freud è un essere perverso polimorfo, perché esprime la sessualità indipendentemente dagli scopi riproduttivi (perversione) e attraverso diverse parti del corpo (polimorfismo). Nella prima fase, detta orale, il bambino ha come zona erogena la bocca, conseguenza del poppare. Nella seconda fase, detta anale, la zona erogena è quella anale, conseguenza delle funzioni del corpo. La terza fase è quella genitale e si divide in due parti: fallica, chiamata cosi per la scoperta del pene, che causa nel bambino un complesso di astrazione (nel maschio per il timore dell’evirazione, nella femmina perché si sente evirata ed ha invidia del pene); quella genitale vera e propria, che consiste nel trasferimento della libido negli organi genitali. Le pulsioni sessuali possono poi essere soggette a sublimazione, cioè essere direzionate verso altre attività. Connessa alla sessualità è anche la teoria del complesso di Edipo, per cui il bambino sviluppa un atteggiamento libidico verso il genitore di sesso opposto.
Il disagio della civiltà
Le teorie della psicanalisi vengono declinate da Freud anche nella religione e nella società Nella religione Freud vede il frutto dell’appagamento dei desideri più antichi dell’umanità, in particolare quello di sentirsi protetti. Dio è quindi la proiezione dei rapporti con il genitore. La civiltà invece ha un costo, poiché devia la libido su prestazioni lavorative, e in essa si viene a creare un super-io collettivo che è incarnato dalle norme e dai divieti. La civiltà si forma perché l’uomo cerca il male minore tra la perdita della libertà ed una totale libertà che diventerebbe pericolosa per l’uomo stesso. Lo Stato secondo Freud deve quindi dare all’individuo più libertà possibile. Nella storia dell’umanità secondo Freud sono condensate due pulsioni, una all’unione (Eros) e una alla distruzione (Thanatos). Su conflitto tra esse si basa l’intera storia del’umanità.

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